martedì 31 gennaio 2023

Donna cretese


La donna cretese

Creta, favolosa isola fra il mare azzurro e il cielo dorato, è il regno della bellezza. La donna di Creta è bellissima: piccola di statura, straordinariamente snella e flessuosa; i grandi occhi scuri guardano franchi, limpidi e intelligenti sotto le sopracciglia finemente arcuate; le labbra sono piccole e morbide, il nasino impertinente. Il collo slanciato sostiene la piccola testa altera. Alla sua bellezza la donna cretese aggiunge il conturbante fascino di una eleganza molto audace, spinta a quei limiti che sono permessi soltanto alle creature privilegiate.
(Sullo sfondo: «L'uccello azzurro », pittura murale tratta dalla «< Casa degli affreschi » Cnosso - Creta.)

VENTI GONNE SOVRAPPOSTE

La donna cretese ha creato alcuni motivi dell'eleganza femminile che poi sono stati ripresi nei secoli successivi. È lei che ha lanciato il vitino di vespa, la gonna pantaloni, gli stivaletti, la coda di cavallo: e tutto con gusto squisito e con naturale eleganza. Il suo abito deliziosamente impudico era composto da un corpetto con le maniche corte che lasciava scoperti i seni e da una gonna strettissima in vita. Quasi certamente le donne eleganti conoscevano l'uso dello stringivita con cui ottenevano non solo un vitino da fare invidia dopo tanti secoli, ma raggiungevano lo scopo di tenere sollevati i seni. La gonna era spettacolosa: talvolta era liscia, ornata con strisce di colori contrastanti, ma più spesso si allargava e si arricchiva per la sovrapposizione di numerose altre gonne più corte (arrivava ad averne perfino venti), che creavano un effetto di volanti.

CAPELLI VIVI E CODE DI CAVALLO

Non che la donna cretese abbia avuto una particolare cura della sua capigliatura; ma forse in nessuna delle opere d'arte dell'antichità, che sono giunte fino a noi, i capelli sono così morbidamente sciolti sulle spalle e femminilmente acconciati come nelle donne degli affreschi di Tirinto. Una parte della capigliatura è avvolta a spirale sulla testa, qualche ciuffo sfugge in morbidi riccioli inanellati sulla fronte e, talora, lunghe trecce ricadono sul petto o sulle spalle. Molto spesso dai capelli morbidamente legati alti sul- la testa scende una « coda di cavallo », del tutto simile a quella che per molto tempo la moda ha imposto alle nostre diciottenni più « à la page".

GIOIELLI

Oro, oro, ovunque e sempre monili d'oro: la civiltà cretese era la civiltà dell'oro ed anche i gioielli fem- minili erano quasi tutti fatti con questo metallo.

Forcine per i capelli, spilli adorni di animali e di fiori, teste in cristallo o in quarzo montate in oro, anelli o spirali di filigrana d'oro, diademi, pendenti per le orecchie, placche per il petto adorne di perle, braccialetti, meravigliosi monili d'oro arricchiti da agate, onici e coralli sono i gioielli pervenuti sino a noi. Centinaia e centinaia di dischetti d'oro venivano inoltre cuciti sulle vesti così da trasformare il più semplice abito nel manto solenne di una dea.

GLI STIVALETTI

Dell'abbigliamento della donna cretese faceva parte un altro elemento di eccezionale rarità: lo stivaletto. La donna elegante portava calzari di cuoio che risalivano oltre il collo del piede, affusolati in punta, con un tacco piuttosto alto. Erano rifiniti con eleganza e ricamati con perle e pietre preziose.

È il primo esempio di stivaletto nella storia del costume femminile e rimarrà unico ancora per secoli.



 

lunedì 30 gennaio 2023

Giorni della merla

                                      
stamattina ci siamo finalmente svegliati con il paesaggio bianco. Un bellissimo freschino fuori, aria pulita, un cielo splendido. Mi sono quindi ricordata che siamo nei giorni della merla, e per fortuna, almeno in questi giorni è fresco, perchè dire che abbiamo visto l'inverno anche quest'anno, purtroppo. non è possibile.
Ho trovato in rete quanto scritto da Bologna Today che riporto, è piacevole ricordare questi detti.
                                        


Uno dei miti popolari più diffusi narra di un gennaio dispettoso, che rubò tre giorni a febbraio per mettere in difficoltà una merla bianca e i suoi pulcini. Il volatile reagì accumulando più scorte di cibo, ma gennaio le giocò un altro brutto tiro, irrigidendo ancora di più gli ultimi giorni del mese. La merla a questo punto riparò con i piccoli in un camino: ne uscì sana e salva, ma lei e tutti i pulcini finirono perennemente macchiati di fuliggine, di qui il perché del colore dei merli femmina e dei piccoli.Un'altra interpretazione vuole che i giorni della Merla derivino da un episodio legato a cronache belliche, avvenuto nella pianura padana nel '700. Un pesante cannone, appunto detto 'Merla', avrebbe dovuto attraversare il Po, ma dato che il fano e l'acqua non avrebbero consentito un trasbordo agevole, i belligeranti attesero fine gennaio per attraversare il fiume, completamente e massicciamente ghiacciato.Una ulteriore leggenda vuole che se fine gennaio vede temperature particolarmente rigide, la Primavera si sveglierà per tempo e con temperature e sole in abbondanza. Viceversa, il tempo sarà perturbato e rigido ancora per qualche tempo, prolungando l'inverno bem oltre la sua scadenza.Sono tante le nenie, le filastrocche e le poesie dedicate ai giorni della Merla: qui di seguito citiamo invece due proverbi, originari del bolognese e della Romagna.

"Quand canta al mérel, a san fóra dl’invéren"
(Quando canta il merlo, siamo fuori dell’inverno)

"Mèral, ‘d mêrz no’ cantê’, che e’ bëc u t’ s’ po’ agiazê. Lëssa ch’e’ chénta e’ ragiôn che lo u n’ha pavura d’inciôn".
(Merlo, di marzo non cantare, che il becco ti si potrebbe ghiacciare. Lascia che canti la tordella, che lei non ha paura di nessuno)


Donna Assiro-Babilonese


 Dalla mia nonna materna ho ereditato una enciclopedia degli anni '60 che ho sempre conservato gelosamente e che mi ha affascinato in un modo speciale. Non ricordo esattamente se fossero dei fascicoli che poi ha rilegato e se fosse una vera e proprio enciclopedia. Tratta di tantissimi argomenti, tra i più svariati, dalla cucina al teatro, alla letteratura, economia domestica, di tutto insomma. Corredata di foto che ti riportano in quegli anni, provocando anche una certa malinconia da parte mia, la trovo davvero bella. Il titolo dell'opera é "Enciclopedia della donna", sono sicura che a mia nonna costò non poco in termini economici, ma devo proprio ringraziarla di averla acquistata. Una delle tante sezioni è dedicata alle donne nell'antichità, mi piace talmente tanto che ho deciso di condividerla anche qui, perchè magari possa venire letta anche da altre persone che possano trovare piacevole questi articoli.

La donna assiro babilonese

La donna assiro-babilonese è semplice e riservata, una silenziosa creatura ben diversa dalla donna egiziana.

Si tinge gli occhi di nero e il viso di rosso-ocra, ma le sue vesti sono tra le più severe che il mondo antico ricordi, e i suoi monili discreti. Per gli Assiro-babilonesi è molto importante combattere, conquistare popoli e terre e formare un potente impero; le donne, al contrario, non meritano troppa attenzione: esse non compaiono in pubblico e non prendono parte alle manifestazioni ciivili. Eppure è per una donna, per una giovane principessa malata di nostalgia, che Nabucodonosor costruisce una delle sette meraviglie del mondo: i giardini pensili di Babilonia.

Vestiva con abiti fluenti che non lasciavano intravvedere le linee del suo corpo. Anche il capo era coperto così che non si scorgessero i capelli e il viso apparisse bello in tutta la sua semplicità. L'abbigliamento di questa donna era semplice, severo, ispirato a una grande modestia: tunica lunga fino ai piedi, ampio scialle drappeggiato e adorno di frange, velo.

Qualche volta al posto dello scialle indossava un altro abito che ricopriva quasi tutta la tunica di lino. Così, vestita in modo né comodo né leggero, con pochissimi gioielli e semplici scarpe appena un poco rialzate sotto il tallone, la donna assiro-babilonese era pronta per andare incontro al suo sposo.

IL FASCINO NASCOSTO

L'uomo era elegante, truccatissimo, profumato, con parrucca e barba posticcia; la donna umile, vestita severamente, appena appena truccata. Tutto il contrario di quello che è la logica? Forse no; anche la donna babilonese ha il suo fascino nascosto: è la sua speciale arte di essere la compagna discreta, la donna capace di annullarsi davanti al proprio uomo elegantemente curato e abbondantemente profumato; di saper mettere, cioè, l'uomo sul piedistallo e di saperlo adorare e ammirare come piace a lui. Un'arma potente per averlo poi ai propri piedi...

L'UNICA AUDACIA

Una certa eleganza nell'acconciatura l'unica piccola audacie che la donna babilonese si permetteva: i capelli, lisci fino alla nuca, venivano pettinati in minutissime treccioline che scendevano, tutte della stessa lunghezza fino alle spalle; oppure venivano acconciati in tanti ricci, simili a globuletti, tutti della stessa precisa lunghezza. Però, come se si pentisse di tanta eccentricità, la donna  per uscire copreiva il tutto con un velo severo.


domenica 29 gennaio 2023


 CASTEL MAGGIORE 

La comunità di Castel Maggiore da sempre è stata considerata molto operosa: ne è testimonianza il fatto che nell'emblema del gonfalone comunale sono raffigurate tre api, quale segno, appunto, di operosità della sua popolazione. Ma è una comunità molto attenta anche ai problemi sociali ed economici ed ha mantenuto questa sensibilità nonostante il raddoppio della popolazione in questi ultimi 30 anni (da 6.000 a 13.000 ab.) e le conseguenti profonde trasformazioni nella economia e nel tessuto sociale.

Quali invece gli effetti e le cause di questa trasformazione? L'effetto è stato una continua espansione dei residenti nei centri abitati, capoluogo in particolare, nella frazione di Trebbo di Reno, nel nuovo quartiere 1° Maggio vicino a Corticella, il progressivo abbandono delle case rurali (66 sono quelle disabitate) e l'insediamento di più di 1000 aziende produttive e commerciali, medie e piccole, per gran parte a carattere artigianale.

Le cause sono da un lato di carattere generale, dovute al forte sviluppo industriale degli anni 60-70, dall'altro la crisi agricola generale con una particolarità locale dovuta a una forte presenza di una conduzione agricola di tipo familiare con contratto a mezzadria; erano 200 famiglie con più di 1000 addetti, ora quasi completamente azzerate.

Questo tipo di conduzione entrò in crisi, in parte, perché il lavoro, oltretutto pesante, era poco remunerato, ma anche per una normativa contrattuale di tipo feudale quale era la mezzadria e infine per l'evolversi dei nuclei famigliari nei quali le forze giovanili non erano più disponibili ad accettare quelle condizioni economiche e di lavoro, e si ribellavano pure alla gestione familiare di tipo patriarcale dove, nella maggioranza dei casi, il capo famiglia amministrava e decideva tenendo all'oscuro della realtà economica e finanziaria, il resto della famiglia. In molti casi, famiglie si sono sciolte abbandonando i poderi con veri e propri traumi, per scontri durissimi fra vecchie e nuove generazioni.

Questo comune nella storia dell'ultimo secolo annovera anche un'altra particolarità, e cioè aon ha mai avuto una economia totalmente agricola, ma ha sempre avuto un nucleo operaio notevole, costituito dalla presenza della Fabbrica «Barbieri» con più di un secolo di vita, e della Riseria «Cantelli ubicate ambedue al «Castello»> Borgata Storica, attraversata dal Canale Navile, attualmente in fase di avanzata ristrutturazione con un tipo di restauro conservativo.

Fin dalla fine del secolo scorso questo Centro abitato è sempre stato un luogo di incontri e di confronto dei cittadini sui problemi sociali, politici ed economici e di iniziative di solidarietà. Attorno al 1880 fu costituita in quella Borgata (che ospitava in quel periodo quasi tutte le Istituzioni Pubbliche del Comune) una Società di Mutuo Soccorso; era un tipo di iniziativa solidaristica per aiutare i più diseredati attingendo da un fondo costituito da offerte dei soci, compreso anche qualche benestante dell'epoca. La bandiera di quella Associazione è conservata nella Sala di Giunta del Municipio.

La Barbieri in quei tempi era prevalentemente una fonderia con una produzione altamente qualificata, in seguito si specializzò in grandi impianti frigoriferi, produzione che continua attualmente sotto il nome di «Tecnofrigo».

La Cantelli era invece una piccola azienda per la lavorazione del riso che arrivava grezzo dalle risaie della bassa bolognese e con macchine apposite veniva sbucciato e reso commestibile. Il riso arrivava per gran parte da Bentivoglio trasportato con dei barconi lungo il Canale Navile, trainati da cavalli che percorrevano la sponda del fiume; arrivati in prossimità della fabbrica si procedeva alla chiusura del corso d'acqua a valle della barca con apposita paratoia, in modo che il livello dell'acqua si alzava fino a portare la barca stessa al piano di scarico.

Per finire questa breve e sintetica presentazione voglio aggiungere che nel territorio di Castel Maggiore ci sono 8 antiche ville, a suo tempo abitate da altrettanti proprietari terrieri, costruite a cavallo del 16° e 17° secolo. Una di queste, «Villa Salina», circa 10 anni or sono è stata acquistata dalla Regione Emilia Romagna e viene utilizzata per diverse e svariate attività: Convegni, ti di aggiornamento ed anche incontri di rappresentanza. Infine voglio ricordare che da Castel Maggiore ha preso le mosse il museo della Civiltà contadina  (che ha sete attualmente a Villa Smeraldi a Bentivoglio) attraverso un gruppo denominato della  Stadura che iniziò, negli anni 60, la raccolta di cimeli, strumenti, attrezzi e macchine d'epoca che servivano nei tempi antichi per la produzione e le lavorazioni dei prodotti dell'agricoltura . Appositamente conservati , puliti e riparati furono poi trasferit a Villa Smeraldim dopo gli opportuni  accordi con l'Amministrazione Provinciale proprietaria della Villa, i Comuni di Castel Maggiore,di Bentivoglio e il Comune di Bologna


Al non Gaitan, par el fest ed nadel

-Nel ripercorrere con la memoria il tempo a ritroso, una delle cose che ha lasciato piacevoli ricordi legati alla mia infanzia, è anche questa che sto per narrare. Eravamo intorno agli anni che vanno dal 1946/47 fino agli anni 1952/53, la nostra famiglia era allora composta dai nonni paterni più mio padre «quel da dapiò» il più vecchio con mia madre ed io; mio zio «<al biôic» destinato ai lavori della stalla, con moglie e due figli, più un operaio a tempo indeterminato, «al minéstar» che viveva con la nostra famiglia e che ogni anno percepiva un salario preventivamente contrattato.

Il nonno, Gaitan, fra le altre mansioni, aveva quella di accudire alla cottura del pane, operazione questa che si verificava una volta la settimana di media. Non sto qui a raccontare la preparazione dell'impasto e della confezione del pane, ma vorrei raccontare come si procedeva in prossimità delle feste di Natale.

Di solito il 23 dicembre, calcolato opportunamente le quantità precedenti, era necessario accendere il forno per il pane e, finalmente, pensavamo noi bambini, per i dolci, non che durante il resto dell'anno non si mangiassero dolci, ma proprio perchè il Natale, consentiva maggiori varietà e più abbondanti quantità.

Averta la boca dal fouran, al s'rimpèva con di malghèr (steli di granoturco) di scarangion (steli di girasole) dou sfurchè ad spen zarven, taie in t'autón intla zè dri la strè, a si strichèva sòta una felda ad paia seca, po a si deva fug, prèma cai brusés incosa, a si zunteva du o tri fasét, parchè stavolta al fouran l'aveva da esar cheld ben.

Finito il fuoco, a quando il forno a giudizio del nonno era abbastanza caldo, als vudeva, dala zendar e dal bres piò lenti, as lasèva cascher la resa (la polvere) e po as laveva al pian ad cutura con un straz mói, lighè adcô da una perdga, al s'laseva srè suquant minut, e pó a s'infurneva al pan, live (lievitato) inváta a la rastlîra adnanz al fug in ca.

Mentre si cuoceva il pane, in casa, la mamma e la zia, sotto l'occhio sempre vigile della nonna, preparavano i dolci che andavano naturalmente cotti dopo aver cotto il pane, e quindi ad una temperatura più bassa.

Ad solit as fèva trei o quater beli brazadel, trei o quater grustè con al savour, zirca un chilo ad panon (panoni, non panettoni) una panira ad raviol e suquanti pasten (biscotti).

-Ades mè a c'fag al butîr - Diceva la nonna mettendo un paio di pani di burro, fatto in casa, in un tegame sulla cucina economica sempre calda ma non tanto da friggere il burro. Facendo questa operazione raccomandava alle nuore di usare poco zucchero, perché molto farebbe male ai denti, mentre in realtà era per risparmiare perchè dal canto loro le due «pasticcere» più giovani, già senza tale consiglio avevano le dosi non eccessive.

L'impasto era lo stesso per tutto tranne che per i panoni; as lavureva intla spartura e inveta al tulir, par nuetar cino l'ira festa granda, tanta grazia ad Dio, anc se l'ira dimóndi, l'aveva da durer da Nadel a Sant'Antoni, agli ultmi raviôl bagnè als magnevan la Veglia ad Sant'Antoni infati, e al premi, dou pron, con dou past la Vaglia ad Nadel, prema ad magner i maron d'intouran al fug.

sabato 28 gennaio 2023

Argelato

 



Appunti di storia

Argelato fu feudo fortificato di Matilde di Canossa. L'autorevole presenza di beni della con- tessa è comprovata da almeno due documenti. Con il primo, datato 9 luglio 1105, Matilde fa dono al capitolo della cattedrale di Bologna della Chiesa di San Michele di Argelata unitamente ad una parte rilevante della Massa di Torano, ora corrispondente a San Giorgio di Piano. Con il secondo, risalente al 1108, rinnova una concessione enfiteutica di un terreno ad uso agricolo posto nel borgo di Argelata a favore di Natalia e Giovanni Marzola (o, secondo altri, Mazzola). La località fu soggetta a frequenti e notevoli inondazioni del vicino fiume Reno (si rammentano, tra le altre, quelle del 1220 e del 1269), nonchè ad altrettanto frequenti incursioni e devastazioni da parte di soldatesche. Scrive l'abate Serafino Calindri che il territorio e castello di Argelata soggiacquero al saccheggio e all'incendio «a cui dovetter soggiacere tanti altri Castelli del territorio dopo la famosa rotta di Zappolino nel 1325». Nuovi danni ebbe ancora a patire, trent'anni più tardi, dall'esercito di Matteo Visconti. Tali devastazioni portarono ad una progressiva e inevitabile decadenza della località, tanto che il Calindri nel 1785 annotava: «dell'antico popolato suo Castello, o Terra, già feudo circa il mille della celebre Contessa Matilde, tante volte contrastato tra l'Impero e la Chiesa, nulla vi rimane di più che una elevata e quadrilunga motta di terra, o dicasi promontorio o piccol monticello, e l'orma di una larga fossa a poca distanza dalla medesima».

La chiesa parrocchiale di Argelato, dedicata a San Michele Arcangelo, risulta già nominata nella sopra richiamata donazione del 1105 e venne pressochè completamente riedificata negli anni 1462 e 1753. Il campanile fu edificato nel 1812 e successivamente restaurato nel 1839. La costituzione del Comune di Argelato risale al 1826. Sono da annoverarsi, infine, tra le principali istituzioni post-unitarie, la Società Operaia di Mutuo Soccorso, organizzatasi nel 1882 e la Cassa Rurale, fondata nel 1906. Con decreto prefettizio datato 31 marzo 1891 venne istituita ad Argelato un'annuale fiera di bestiami in concomitanza con la festa patronale di San Miche- le, cadente il 29 settembre. Tale fiera costituì per decenni un preciso punto di riferimento per l'economia locale.


Barcaròl, psiv'gnir a pasèrum?" ovverola storia dell'ultimo passatore del Reno 
Gasperini Attilio, classe 1908, è stato l'ultimo passatore del Reno della zona di Argelato Castello d'Argile. 1 Gasperini da generazioni e generazioni erano i traghettatori al Passo del Savignano (detto anche della Frattina), che collegava i territori sud-occidentali di Argelato e Argile con quelli di Padulle e Sala Bolognese.
Una zona assai popolata, un'economia legata strettamente all'agricoltura e al piccolo artigianato facevano del Passo del Savignano uno dei più importanti punti d'incontro delle genti qua e di là dal Reno almeno fino alla fine del secolo scorso; poi con la costruzione del ponte di Bagno (1880) e di quello di Buonconvento (1937) e l'avvento della motorizzazione anche l'antico mestiere del passatore è scomparso. Mestiere di famiglia dunque, ma anche se uno solo della famiglia era preposto a traghettare  tutti alla bisogna prestavano tale servizio, e Attilio Gasperini già a otto anni era stato messo sotto a tirare la barca. II Reno allora era molto più largo e al Savignano aveva uno specchio d'acqua di 60-70 metri; la barca veniva impiegata a traghettare dall'autunno alla primavera inoltrata mentre d'estate, dato il basso livello dell'acqua veniva montata una passerella in legno. Singolare  era il sistema di trasbordo da una sponda all'altra: una fune di acciaio lunga 150 metri attraversava il fiume ancorata da una parte a un grosso albero e dall'altra a un mulinello, tramite il quale la si teneva sempre a circa un metro sopra il livello d'acqua; la barca, di legno di quercia (en lunga sei metri e larga tre, alta 90 cm., con un pescaggio di soli 20 cm.), aveva un palo nel mezzo del quale vi erano due rulli ruotanti su di un perno attraverso cui scorreva la detta fune di acciaio che così teneva in guida la barca. Facendo presa con le mani sulla fune e tirando, il passator spostava la barca trasferendola dall'una all'altra sponda. Il servizio era dall'alba al tramonto veniva sospeso di notte; era un'attività utile a soli pedoni e biciclette e veniva retribuita con pocho soldi a persona (10 o 15 centesimi).
La domenica, le feste e i giorni di mercato erano quelli di maggiore traffico, ma certo che con questo mestiere non si campava e i Gasperini erano anche falegnami; riparavano carri e birocci e attrezzi agricoli, costruivano madie, tavole e armadi nella modesta bottega della casa del passatore.
I nuovi ponti sul Reno, la guerra, i clienti sempre più radi fecero sì che nel 1940 il servizi fosse sospeso: oggi nella golena al Savignano restano la vecchia casa dei Gasperini, una piccola cappella dedicata alla Madonna, e alcuni dei pali in rovere della passerella e delle rampe di accesso; il Reno in questo punto è molto più profondo e più stretto di una volta e una fitta vegetazione di alberi e arbusti impedisce addirittura di avvicinarsi a quello che fu uno dei più importanti traghetti sul Reno dei secoli passati, il passo del Savignano.

                            il traghetto al passo del Savignano, nei pressi di Argelato negli anni '30


Preghiere

A lèt a lèt a vói andèr, tótt i sânt a vói ciamèr, trị da cô e tri da pi, tótt i sânt i én mî fradî; la Madona l'è mî mèder, San Jusèf l'é mî pèder, San Lurènz l'é mî parènt, a pòs durmir sicurament. 

A letto a letto voglio andare, tutti i santi voglio chiamare tre da capo e tre da piedi, tutti i santi sono miei fratelli; la Madonna è mia madre, San Giuseppe è mio padre, San Lorenzo è mio parente, posso dormire sicuro.

Sant'Antòni dal campanén, s'an gn'é pân e s'an gn'é vén, s'an gn'é lègna in dal granèr, Sant'Antòni, cm'òja da fèr?

Sant'Antonio dal campanello, se non c'è pane e non c'è vino, se non c'è legna nel granaio; Sant'Antonio come devo fare?

Strofette di questua

Av sèn gnó a dèr al bòn cấp dân, ch'a campéssi zènt ân, zènt ân e un dé, la bóna màn la um véin a mê.

Son venuto a darvi il buon capo d'anno, che compiste cento anni, cento anno e un giorno, la fortuna venga a me.

'Zdoura, 'zdurátta, guardè in dla cassatta ch'ai é un pèz ed panzàtta, s'a num la darî, al gât av la purtarà vî.

Zdoura, zdouretta, guardate nella cassetta che c'è un pezzo di pancetta, se non me la darai il gatto ve la p

'Zdoura, a sèn par cranvèl, brasûla o fritèl, un quèl a vlen magnèr. Guardê in dla spaltûra s'ai è un pèz ed brasûla, guardê in dal casson s'ai è un pèz ed panon, guardê d'dòp a l'óss s'ai é un pèz ed parsótt, guardê in dla cassatta s'ai è un pèz ed panzàtta, anch s'l'à al peil am n'importa, basta ch'la stâga in dla mi sporta.

Zdoura, siamo per carnevale, fritelle, qualcosa vogliamo mangiare. Guardate nella spaltura se c'è un pezzo di brasula, guardate nel cassone se c'è un pezzo di panone, guardate dietro all'uscio se c'è un pezzo di prosciutto guardate nella cassetta se c'è un pezzo di pancetta anche se ha il pelo non importa, basta che stia nella mia sporta.

(Le prime due zirudelle avevano spesso lo scopo di vivacizzare gli incontri invernali nelle stalle «a trabb», le altre venivano recitate durante i matrimoni «i spusalézzi»).

 Al zirudèl d'la tradizion

Zirudèla stê a 'scultèr che un bèl chès av voi cuntèr: l'ètra sîra andand a trabb in d'la stâla d'Michelatt a' îra 'na dona fté da òmen ch'la pareva un galantomen, còn 'na zigaratta in bocca, guai a chi la tòcca. Al la tuché al fiôl d'Baravèla tich-u-dài la zirudèla.

Zuridèla d’cô di cópp di quaión ai n'é da par tótt ai n'é anch in mèz a l'èra toch e dài la zirudèla.

Zirudèla i mî parént, da magnèr an gn'é pió gnînt, ai n'é di drétt, ai n'é di gûb, a fèn un éviva ai spûs!

Zirudèla i mî aprént, da magnèr an gn'é pió gnînt, an gn'é gnanch 'na fatta d'murtadela, tich-u-dài la zirudèla.

Filastrocche infantili


Mâma, papà,
cumprêm un s'ciuptén d'ander a la câzia
a' mazzer i limalén,
i limalén di Frânza, cich e ciách få al tamburén!
cus'èt in dla tô pânza? Ai ò di fasulén:
Cilubén paséva al fiómm, la só mama l'i féva lómm,
 la lomm la s'e 'smurze, cilubén al s'é 'cupè.

Sgnour Nicôla, a voi dla côla,
ed cla côla ch'la s'incôla
S'la n'é côla
ch'la s'incôla,
sgnour Nicôla
an tói pió côlaqué da vó.

Seiga butèiga
Dilen (o Zanén) con la Dileida, un butiglién da l'òli
pr'ander in purgatori, un butiglién ad vén
da dèr ai sô fradlén (opp.: da der al piò cineni)

Pîta, pitèlaù
color sei fén,
la bela pulinèla sô par la schèla,
color sei bèla, par San Martén, schèla scalón, panna d'pavòn, acqua del mare, re re, figlio d'un re, ti tocca proprio a...te!
belle città.
metti dentro questo pè:

Riteniamo utile riportare alcune brevi osservazioni sugli ultimi due testi pubblicati. Sega buteiga» era una filastrocca che accompagnava un gioco di abilità infantile che si effettuan mani e una cordicella. Quest'ultima, dopo alcuni «passaggi» da un dito all'altro, dava l'imp ne del movimento di una vecchia sega da boscaiolo. «Pîta pitèla» (o «Pessa piasaelas) citata durante un gioco che cosi viene descritto da due studiosi di folclore: «I bambini d fila, si mettono a sedere con le gambe stese ed a piè pari, mentre uno di essi, il capo giocp in piedi, e recita la filastrocca, toccando, ad ogni fin di verso, un piede dei suoi compagni i  quali debbono subito ritirarlo (O. Trebbi-G. Ungarelli, Costumanze e tradizioni del popolo bolognese, Bologna 1932, p. 224).







Un quâich pruvêrbi dla campagna

Quand al temp al fà la lèna, a piov dènter dla stmèna (Quando il tempo fa la «lana», piove entro la settimana).

Novel souvra la breina, aqua o nèiv cl'ètra matèina (Nuvole sopra la brina, acqua o neve la mattina successiva).

Temp lús, aqua prodûs (Tempo luminoso, acqua produce). 

Elba rossa, o ch'la péssa o ch'la sóppia (Alba rossa, o piove o tira vento). 

Quand ai tira al muntàn, o ch'al piov inců o ch'al piov admàn (Quando soffia il vento montano o piove oggi o piove domani).

Par Santa Crous, furment spigous (Per Santa Croce «3 maggio», frumento con la spiga). 

La louna sitimbréina, sèt lòun s'inchéina (Alla luna settembrina sette lune s'inchinano: la situazione meteorologica non subirà cambiamenti per sette successivi pleniluni). 

Par San Lócca, chi n'à sumnè bóffa (Per San Luca » 18 ottobre», chi non ha ancora seminato deve «sbuffare» ).

Par Santa Catiréina, la guâza la dvènta bréina (Per Santa Caterina «25 novembre», la rugiada si trasforma in brina).

Par Santa Catiréina, o ch'al nèiva o ch'al bréina o ch'ai bât la paciaréina brina o che batte la pioggerellina)

(Per Santa Caterina, o che nevica o che c'è la brina  

Da Santa Catiréina a Nadèl, un mèis uguel (Da Santa Caterina a Natale, un mese uguale). 

Santa Bibiena, quaranta dé e 'na stmèna (Santa Bibbiana «2 dicembre», quaranta giorni e una settimana: l'andamento mete quel giorno si ripeterà per quaranta giorni e una settimana).

Bel Nadel, rustézz a Pasqua (Bel tempo a Natale, fuoco acceso a Pasqua).


venerdì 27 gennaio 2023

Granarolo Emilia parte 3



(casa Carini anni '80)

 (dialetto locale)

Ricordi di Gualtiero Bonfiglioli e Laura Bassi, in parte ravvivati dal libro di Armide Broccoli, "Chiamavano pane il pane"

L'arzdour -  L'arzdour l'era al càp famàja ch'al curèva i interès, l'andèva al marchè, al s'mitèva d'acòrd caun chi ètr'arzdòur par i turan dla zèrla, al distribuiva al mansiaun secònd al dèt "vàdar, prevàdar, udìr, capir, intàndar". Al mumàint più bròt dl'an l'era dòp l'incàuntar coun al padroun par i count:  l'era narvàus e intratabil parchè al padràun par al cuntrat ed mézadri l'aveva l'esclusiva dla vàndita dal furmaint, dla canva, dl'ù e dal bisti, e quan a jera al rendicòunt al n'era mai vantaz dal contadein.

Come sàgn dal so cmand l'arzdòur al purtèva dau aneli int'agli uràc' e al s'in caveva òna par derla al fiòl ch'l'ereditèva al cmand;: quand l'arzdòur al murèva, al fiol l'erediteva anch la secònda anela.

L'arzdòura - L'arzdòura invezi la controleva al repert dla cusèina, dla cà in generel par vi dla biancari dla cura di amalè caun agli erb medicinel, e anch al repèrt dl'èra.  La stèva sàimper 'in cà e al masum l'andèva al marchè a Budri a vàndar agli ov o al galéin e sl'andeva a màsa prèma a la a la dmànga. Tanti volt la famàja patriarchèl l'era fata ed dimòndi fiu  caun al sàu spàusi, e spàs a fer da magner aj tuchèva propri al spàusi zàuvni, una stmena proun. Mo l'era sàimper l'arzdàura ch'la deva la raziaun quotidièna par la ragò ed suséza, panzàta, lèrd, ch'la tgnèva int'na sporta.

Al spetaqual piò bel l'era quand la deva da magner al galein e al li ciamèva caun al vers "còchi,, cò-chi"; alàura da tòti al pert agli arivevan ed càursa e al zarchèvan ed parer vi i cuncureint caun di coc' e spintoun. La castreva i galèt par fer i capoun, la controlèva se agli ov agli eran fecondè mitandli càuntr'un raz ed sàul ch'al paseva da una scarvaciè dla fnèstra.

Traduzione

Reggitore (conduttore) Il reggitore era il capo famiglia che curava gli interessi andava al mercato, si metteva d'accordo con gli altri conduttori per i turni della zerla (ossia lo scambio delle opere che pure si praticava fra contadini per molti lavori, come quelli della canapa e della spannocchiatura), distribuiva le mansioni secondo il detto "vedere, prevedere, udire, capire, intendere". Il momento più brutto dell'anno era dopo l'incontro con il padrone per i conti: era nervoso e intrattabile perchè il padrone per il contratto di mezzadria aveva l'esclusiva della vendita del frumento, della canapa, dell'uva e del bestiame, e quando c'era il rendiconto non era mai a  vantaggio  del contadino. Come segno del suo comando il reggitore portava due anelle nelle orecchie e se ne toglieva una per darla al figlio che  ereditava il comando; quando il conduttore moriva, il figlio ereditava anche la seconda anella

Reggitrice (conduttrice) La reggitrice invece controllava il reparto della cucina, della casa in generale per via della biancheria, della cura degli ammalati con le erbe medicinali e anche il reparto dell'aia. Stava sempre in casa e al massimo andava al mercato a Budrio a vendere le uova o le galline, e se andava a messa prima la domenica. Tante volte la famiglia patriarcale era fatta da parecchi figli con le sue spose, e spesso a far da mangiare toccava proprio alle spose giovani, una settimana per una. Ma era sempre la reggitrice che dava la razione quotidiana per il ragù di salsiccia, pancetta, lardo che teneva in un sacchetto.

Lo spettacolo più bello era quando dava da mangiare alle galline e le chiamava con il verso "co-chi co ch"; allora da tutte le parti arrivavano di corsa e cercavano di togliere i concorrenti con degli spintoni. Castrava i galletti per fare i capponi, controllava se le uova erano fecondate mettendole contro un raggio di solo che passava attraverso la finestra.


Al bioic

La stala l'era impurtanta par al lavurir di bû e dal vach int'i camp, par al lat, par l'aldame par al riscaldamaint d'inveren quand la famaja la feva al «tràp», e al biôich l'eveva al càumpit ed bader saul a la stala. Al cureva la pulizi dal bîsti caun la stragia e la bròsca, al li sugheva caun di sách quand al turnevan sudè dai camp, o sl'era piuvò maintr'al lavurevan, agli pasèva la sónza int'la capa par amorbidir i cal dal zò, agli tajèva agli óng' di pi caun al tanaj aposta, d'inveran agli miteva na cuêrta sauvra la schèina s'agli avevan d'ander föra a bovar e al mantneva la pulizi int'la gràpia, intl'aib (abbeveratoio), int'al suichèr e in tot i sit, parché l'igiene l'era in dispensabil par la salut dal bisti. L'era impgnè tót i dè, dal vôlt cumpràisa la dmanga, e da l'èlba al tramàunt.

Il bovaro
La stalla era importante per il lavoro dei buoi e delle vacche nei campi, per il latte, per il concime per il riscaldamento d'inverno quando la famiglia faceva il "trap" e il bovaro aveva il compito di badare solo alla stalla. Curava la pulizia degli animali con la spazzola di ferro e una spazzola con le setole e li asciugava con dei sacchi quando tornavano sudati dai campi, o se era piovuto mentre lavoravano gli passava il grasso nella coppa per ammorbidire i calli del giogo, gli tagliava le unghie dei piedi con le forbici apposta, d'inverno gli metteva una coperta sopra la schiena se dovevano andare fuori a bere e manteneva la pulizia nella mangiatoia, nell'abbeveratoio, nel canaletto e in tutti i posti perchè l'igiene era indispensabile per la salute degli animali. Era impegnato tutti i giorni, delle volte compreso la domenica, dall'alba al tramonto.

Al campagnol

Al campagnol l'era al responsabil ed tot i lavurir di camp, al prém a tachér e l'ultum a smetar, sainza pora dal fràd e dal chèld; i al ciamèvan «quàl ch'al tira al col ai èter», parché l'aveva sàimper la smania ed fer prest, parchè i lavurir i eran dimondi e al tàimp al n'era mai asè. Fra la preparaziàun dal train, la sàmna, al pudèr, l'argôlt, l'aveva da pinsèr anch a difàndar al prodot dal malatî e dai pasarein (e al prepareva i spuràc), mo anch dal rugh, ch'aj dèva la caza insam ai ragazû a forza ed pistút. Al feva anch l'ort, al tgneva indri al smàint par l'an dòp, al cureva i canvi e i fús par l'irrigaziàun e, insàma, al n'aveva mai un'aura dla bôna.

Il campagnolo

Il campagnolo era il responsabile di tutti i lavori dei campi, il primo a iniziare e l'ultimo a smettere, senza paura del freddo e del caldo, lo chiamavano "quello che tira il collo agli altri", perchè aveva sempre la smania di far presto perchè i lavori erano molti e il tempo non era mai abbastanza. Fra la preparazione del terreno, la semina, il potare, il raccolto aveva da pensare anche a difendere i prodotti dalle malattie e dagli uccellini ( preparava i spaventapasseri), ma anche dalle rughe che gli dava la caccia insieme ai bambini a forza di pestarle. Faceva anche l'orto, teneva dietro alle sementi per l'anno dopo, curava i canali e i fossi per l'irrigazione e insomma, non aveva mai un'ora buona.


Al cantinir

La cainteina, interè ed zinquanta zintemiter e esposta ad sáta (a Sud) l'era spàs protéta anch da l'ambra ed quàica pianta, come la vida, cla steva so par al mur esteren. Al cantinir l'era gelàus dla so atrezadura mo anch dal lochèl: an vleva che incióun l'andès in canteina caun dal pan, parchè anch sàul una brisla la pseva arviner na damigiena d'vein baun, opur ch'i purtésan alsi, savȧun, erb aromatich, ch'al psevan arviner al vein caun i udûr. Quand la lóuna l'era bona e an tireva brisa al vàint, al tramudèva o l'imbutiglieva. Mo al period piò impegnativ l'era al tàimp dla vendàmia e poch préma: l'aveva da preparér al sit, i tinaz, i bigónz, busèr al bót o stachèri caun delicatàza al tès (tartaro), controler al calâstar, s'aj manchèva quèch côsa, andèr a la fira di bigónz a San Lázar, indòv l'aveva anch l'ucasiàun ed scambiér un parair o un'esperiáinza caun i colega eccetera. E pò l'arivèva al mumàint ed muster, turcièr, sistemer toti al qualitè ed vein, da cal miòur, destinè a la vandita, al mez vein e al tarzanèl o puntalaun, destinè a la famaja. In particoler al puntèl l'era alzir e bròsch, che anch i ragazû i in psevan bovr a volonté.

Il cantiniere

La cantina interrata di cinquanta centimetri e esposta a Sud era spesso protetta anche dall'ombra di qualche pianta, come la vite, saliva sul muro esterno. Il cantiniere era geloso della sua attrezzatura ma anche del locale: non voleva che nessuno andasse in cantina con il pane, perchè anche solo una briciola poteva rovinare una damigiana di vino buono, oppure che portassero "alsi", sapone, erbe aromatiche, che potevano rovinare il vino con gli odori. Quando la luna era buona e non tirava il vento, travasava o imbottigliava. Ma il periodo più impegnativo era il tempo della vendemmia e poco prima; doveva preparare il posto, i tini, i bigongi, ingrossare le botti o staccare con delicatezza il tartaro , se mancava qualche cosa andare alla fiera dei bigonci a San Lazzaro dove aveva anche l'occasione di scambiare un parere o una esperienza con i collega. poi arrivava il momento di mostare, torchiare sistemare tutte le qualità di vino, dal migliore destinato alla vendita al mezzo vino e al terzo vino, destinato alla famiglia. In particolare il terzo vino era leggero e brusco che anche i ragazzi potevano berne a volontà-

ragazú

Quand in cà a i era di cino an se dscureva d'interes, e spezialmaint quand l'ariveva al padraun, guai i ragazû: o fora o a let. A proposit a m'arcôrd che i ragazû i mandevn a let al 6, e anzi i durmevan int'al stanziôl, una pert dla stala duv a si tgneva la roba pr'al bisti. Tanti volt, invezi ed durmir, i ragazû i stevan a zugher a bréscla, s'i ariuscivan a ruber una quàica candátla. Zerti famaj i fevan durmir i ragazû int'la loza, caun dal fila id let che ed not al «nuni al pasèva da tôt a fèri fer la pipi intl'urineri. A m'arcôrd l'àulum ed casa Marcovigi dóv nuètar ragazû ai zughèvan dàintar. Al tràunc l'era vûd e ai psevan steri fèna in 7.

I ragazzi

quando in casa c'erano dei bambini non si discuteva di interessi e specialmente quanto arrivava il padrone , guai i ragazzi, o fuori o a letto. A proposito mi ricordo che i ragazzi li mandavano a letto alle 6, e anzi dormivano  nel stanziol, una parte della stalla dove si teneva la roba per le bestie. Tante volte, invece di dormire, i ragazzi stavano a giocare a briscola, se riuscivano a rubare una qualche candela . Certe famiglie facevano dormire i bambini nella loggia, con una fila di letti  che di notte le "nonna passava da tutti a fare fare la pipi nel vasino. Mi ricordo l'olmo di casa Marcovigi dove noi ragazzi ci giocavamo dentro. Il tronco era vuoto e ci potevamo stare fino in 7.

Al ragázi antighi

Par completer la descriziàun dla famaja bisagna dir che spàs a jera anch la zièina o ragâza antiga, cioè zitěla. L'aveva dal mansiaun come na zavata ráta squêsi saimpar ed stopabûs e dal volt la vgneva anch maltraté, spezialmáint dal spausi.

Le ragazze antiche

per completare la descrizione della famiglia bisogna dire che spesso c'era anche la zia o ragazza antica, cioè zitella. Aveva delle mansione come una ciabatta rossa quasi sempre come tappabuchi e delle volte veniva anche maltrattata, specialmente dalle spose.

Al garzaun 

Zerti famaj da cuntadein agli avevan al garzàun, ch'l'era qual ch'al fèva i lavurir piò pesant e al vgnéva da famaj ed brazéint. Aj era di ragazû dai 8 ai 11 an ch'i andevan par garzàun saul pr'al magner, sainza pèga, magari par la stasàun estiva. Invezi dai 11-12 an in so spàs i stevan tot l'an: me (parla Gualtiero Bonfiglioli) dal 1938-39 a jó fat al garzàun par 100 scud a l'an, un quintel d'furmáint e un per d'schèrp: d'estè am liveva a mezanot par guarner al bisti e al 2 andeva arer fena al 10.

Il garzone

certe famiglia di contadini avevano il garzone, che era quello che faceva i lavori più pesanti e veniva da famiglia di braccianti. C'erano dei ragazzi dagli 8 agli 11 anni che andavano a fare i garzoni solo per il mangiare, senza paga, magari la stagione estiva. Invece dagli 11-12 anni in su spesso stavano tutto l'anno : io (parla Guartiero Bonfiglioli) dal 1938 -39 ho fatto il garzone per 100 lire all'anno, un quintale di frumento e un paio di scarpe: d'estate mi alzavo a mezzanotte per dar da mangiare alle bestie e alle 2 andavo ad arare fino alle 10.

I brazeint

Què a Granarol I brazéint, come int'agli èter cmóun, i eran quî da pió miseria. Int'al ghetto ed Santa Brigida a in steva dimóndi famaj e par arsparmier la brusàia i s'mitevan d'acord anch a fer al pan a turen. L'evasiàun da tanti misêri e tanti fadigh l'era al tràp, dov a s'zughèva a gufat, a masein o a novzàint (a la màur a s'zughèva piò che èter intl'ustari, par dagli aur, cau dal gran sfilarè d'butèli). I brazèint i fevan na quèch giurneda al tàmp dla canva, di furag', dal mêder o dla vindâmia; opur, quand l'anvèva dimondi, i andevan a Bulagna a scarghèr la naiv dal că, o dai binèri dla ferovi.

I stevan dimondi piz di cuntadein e i sbarchevan al lunèri anch a spighlèr al furmáint, i ga raví, i panucéin. Par scaldères i brusèvan di malghet, di biróc, di sprúch ed canva o dal braguel. I piò furtuné i tulevan da un cuntadein un pez ed tera da lavurer caun un cuntrat a vaus ciamé sal terz» (1 mitevan tota la man d'ôvra e i tgnevan un têrz).

I braccianti

Qui a Granarolo i braccianti, come negli altri comuni, erano quelli da più miseria. Nel ghetto di Santa Brigida ci stavano parecchie famiglie e per risparmiare la legna si mettevano d'accordo anche a fare il pane a turno. L'evasione da tanta misera e tante fatiche era il trap (il trap veniva chiamato , quando dopo cena, si ritrovavano in casa di uno o dell'altro davanti al camino a fare chiacchiere o giocare  si diceva va al trap(ndr nonna Giovanna), dove si giocava a gufetto, a massino o a novecento (a la morra si giocava più che altro nelle osterie, per delle ore, con delle gran file di bottiglie). I braccianti facevano qualche giornata al tempo della canapa, dei foraggi, della mietitura della vendemmia; oppure quando nevicava molto andavano a Bologna a scaricare la neve delle case, o dai binari della ferrovia.

Stavano molto peggio dei contadini e sbarcavano il lunario anche a spigolare il frumento,  le pannocchine. Per scaldarsi bruciavano i residui del mais, dei carretti, il fusto della canapa o delle cortecce. I più fortunati prendevano da un contadino un pezzo di terra da lavorare con un contratto a voce chiamato  "sal terz" (ci mettevano tutta la mano d'opera e tenevano un terzo)

giovedì 26 gennaio 2023

Granarolo Emilia parte 2


 Zirudella sul campanaro di Granarolo (dialetto locale)


Zirudella la mi zaint
as dis poc pensir e cor cuntaint
acsé av voi cunter
cussa i fen i campaner
e a val degh in dou parol
ch'ièn propri qui et Granarol.
- Al suzes ai quatar et febrer
cal fat què un po originel
in giurneta ed mercoledè
che i sunèn dou volt mezdé.
Quast al capita, ansò sai coi
quand a s'a chi trest arloi
che on s'abetua a deri di scandai
e l'aura esata on l'à sa mai.
- Par quast lour i s'eran regolè col vapurein
però si avessan guardè i mi cinein
cl'era da poc passé ongg'our
is sr'en acort d'incossa evitand l'erour
acse v'dand al treno i g'messan ed scampanzer
e al dogg d'al dè is messan a suner.
Mè a capè sobit in dal mumaint 
(a fevan al fos dal piantamaint)
e anch Gaitan al vès tott d'un fiè 
"ah! par zio, quast al n'è mezdé "
"mo t'an seint chi fan dòn, dòn
quindi la srà una comunion".
- dop però i turnèn a scampanzer
e Gaitan: " nò i sen sbagliè i campaner
parchè aveva di dobbi anca mè 
che al foss bèla arive mezde;
e que av dirò che a son passè da Castnesv
perciò a cgnoss i quaion a nes.
Infati da lè a un pot a sinten al canòn
qual sè cl'era mezdè propri da bon
e i campaner come on c'va alla colta 
i s'attachèn al campen un'etra volta.
- Mè an'i voi mega der tort anca a lour 
parché la coulpa l'e ste totta dal vapour 
che c'al de le al s'era mess al gamb in spàla
e l'andeva fort com dal stiop una bàla 
al pareva cl'aves magnè dal leòn 
invezi i fevan fugh con al carbòn.
L'è dimondi mei quanti drovan i stecc con al treno c'al s'incaglia 
contar ai radecc e cal fat che lè agl'à sanz étar ingassè parchè dou volt mezdé in l'avevan mai sunè.
- Però as capess che ander a rai l'era giunte un tran tran
come qual et paser asvein a l'ass dal pan
parchè oltre a cal sbali appana cunté
le piz quant in sonan brisa l'aimari dal dè.
Acsè quand un povar pisuneint 
l'a d'ander a lavurer par taimps 
al sta in urcia e al s'liva so in camisa 
mo l'aimari on la seint brisa e 
al smit al bregh tot instizè 
us d'un can quant l'é arabè 
- e po' al cmainza a biastmer 
"azzidaint a te e ai campaner
a causa ed lour a tein fer terd
e quant a son in l'ora ium tennen un quert.
Quast an la scap gnanc sai foss nostar Sgnour 
parchè a s'é bela livè al soul 
e anch par stavolta l'è andé acsé 
ma un'etra volta av prumett me 
che a un liv a lusour ed strela"
e que ai fines la zirudella.



mercoledì 25 gennaio 2023

Calende - previsioni 2023


 Premetto che oggi San Paolo non ha convertito perchè è nuvoloso, riporto comunque le previsioni dei mesi che indicativamente comunque dovrebbero indicare come sarà il tempo. Al massimo ci sbagliano 😂

Mese               prima quindicina         seconda quindicina

gennaio              bello                          variabile
febbraio              bello umido              brutto
marzo                 bello umido              brutto
aprile                  bello umido              brutto
maggio               bello                         bello
giugno                bello umidità             bello
luglio                  bello umidità             brutto
agosto                 variabile                    brutto
settembre           variabile
ottobre                bello                          umido
novembre           bello                           bello
dicembre            bello                           bello

Granarolo dell'Emilia


 Sfogliando una vecchia agenda ereditata dai miei suoceri, "Al liber ed quall ch'pega l'oli", ho trovato molte cose interessanti che ho deciso di riportare qui, perchè mi dispiace che vadano perse.

Chi partendo da Bologna lascia alle spalle Porta Zamboni e si inoltra verso nord, percorrendo Via San Donato, a undici chilometri dalla città, là dove la pianura si allarga all'infinito, trova Granarolo dell'Emilia. Certo non ci sono più le siepi di biancospino che delimitavano le singole unità poderali e offrivano a primavera uno spettacolo incantevole per la fioritura e l'intenso profumo, né le ampie distese di grano da cui Granarolo trasse il nome, o le verdi macchie di canapa, un tempo assai coltivata. Oggi la terra è riservata a una coltura intensiva. 

Granarolo è sede comunale da poco più di un secolo. Fino al 1876, la sede comunale fu Viadagola, ora la frazione più più piccola di Granarolo, ma ricca di storia e di insigni monumenti. Qualcuno vuole che da un amore di Re Enzo con una bella di Viadagola, ricordata anche dal Pascoli, nascesse nel 1252 il capostipite della famiglia Bentivoglio che dominò Bologna. Altre frazioni di Granarolo sono: Quarto, Cadriano, Lovoleto. Le chiese delle frazioni e del capoluogo conservano opera d'arte di grande valore come un coro in noce del seicento, un quadro del Guercino e due della Sirani a Granarolo. Un Guercino e un quadro del Francia a Cadriano con uno splendido mobilio in radica del seicento, nella sagrestia. A Quarto quadri del Carlvart, del Faccini e Tiarini.

Tipiche le antiche case coloniche, specie a Viadagola, risalenti al cinque-seicento, la villa già dei Pallavicini ed ora dei Sapori, Villa Mignani a Cadriano che fu già di Marco Minghetti. Un "Ospitale" del 1454 a Lovoleto. A Granarolo, la casa che ospitò l'esploratore africano Pellegrino Matteucci. 

Il nome di Granarolo è ricordato per la prima volta, negli atti ufficiali, nel 1129 quando negli atti della Sapienza bolognese fu scritto fra il numero dei notai un tale Ugolino di Giacobino di Domenico da Granarolo. L'amore per la libertà e l'indipendenza dei granarolesi non risale solo alla resistenza contro la dittatura fascista, ma è di antica data. Infatti nel 1362 quando i Visconti di Milano avevano steso la loro potenza fin sopra Bologna e i soldati viscontei si erano accampati presso la chiesa di Granarolo, i granarolesi si unirono ai bolognesi e sconfissero i soldati viscontei per cui molti granarolesi entrarono a far parte degli uomini che costituivano il consiglio dei 600 di Bologna.


Chiesa e municipio


Nel 1405 il distretto di Granarolo si trova in potere del conte Alberigo di Barbiano il quale, non rispettando i patti di una pace conclusa, ben presto viene estromesso e Granarolo è nuovamente libero.

Che popolazione poteva avere Granarolo a quei tempi? Nel 1573 l'animato della parrocchia di Granarolo, come risulta dai dati della visita pastorale di Mons. Ascanio Marchesini è di 455 e nel 1846 di 950, oggi passa i 3.000 (anno 1986 ndr).

Curiosità etimololiche. Se è chiaro  che il nome di Granarolo deriva da grano (i maligni dicono da "grane"). Quarto perchè sorto al quarto miglio da Bologna e Cadriano da una famiglia romana "Gens Caturia" (e che vi fossero ricche famiglie romane in loco, lo confermano le molte monete romane scoperte durante scavi nel 1822 e 1845) non è chiara l'etimologia di Lovoleto e Viadagola. 

Dice la storiella: alcuni mercanti avevano un asino da vendere e incominciarono le trattative. Se lo volete il prezzo è tanto...lo volete...lo volete e, cammin facendo, ormai stanchi della lunga trattativa, uno esclamò; "via, dagol!" onde Lovoleto ove iniziò la trattativa e Viadagola ove fu conclusa. Direbbe il Cellini: "Non so perché i dotti si affatichino tanto su l'etimologia di certi nomi che sono di così facile interpretazione":

Oggi Granarolo è conosciuto per il latte e ancor più per la squadra di basket "la Granarolo Felsinea" che ha vinto il campionato nel 1984. Granarolo è un paese prevalentemente industriale anche se conserva una parte di agricoltura intensiva. Se l'insediamento industriale avesse seguito il ritmo degli anni settanta, oggi, di grano, rimarrebbe quello delle spighe ornano lo stemma del comune.


Olmo gigante proprietà Marcovigi

Brighetti Carlo -Il contadino poeta di Granarolo Emilia

Carlo Brighetti un contadino nato ad Argelato nel 1874, si trasferì con la famiglia in un podere chiamato "La grolla" dietro il municipio di Granarolo Emilia, dove ora sorgono dei palazzi. Fu qui che il giovane sulla ventina riuscì ad ottenere la qualifica di "Massér", il massimo riconoscimento a cui poteva aspirare un rimatore come lui che si dilettava a scrivere Zirudelle su fatti di cronaca spicciola e paesana. Quel traguardo ambizioso venne conquistato dal giovane con l'impegno, la creatività, l'estro, le sfide in campo aperto con i Franchini (famiglia di cui faceva parte mia suocera, con mio grande onore), una prestigiosa dinastia di rimatori la fama dei quali, andava ben oltre i confini di Granarolo. Lui senza timori irreverenziali amava misurarsi con rivali davanti al pubblico, il giudice più competente e più severo, che scoprì in Brighetti oltre all'innato talento il grande cuore di un uomo onesto, amante della pace, della libertà e della giustizia. Tutti sentimenti che riusciva a trasmettere negli spettacoli come "il rogo della vecchia" e "la mascherata", scritti di suo pugno, che andava a ra84ppresentare nelle piazze dei paesi campagnoli, mentre sapeva mettere in burla fatterelli gustosi come quello dei campanari di Granarolo con la freschezza creativa della sua vena ironica. 
Bologna, giugno 1985                                                                      Armide Broccoli

                                                                      Scuole Comunali










martedì 24 gennaio 2023

Dialetto bolognese, coniugazione verbi: Tacere Toccare Urlare Usare Vedere Volere

 


VERBO TACERE=  TÈSER


1° persona singolare io taccio= mé a tès
2° persona singolare tu taci= té t tès
3° persona singolare lui tace= ló al tès
3° persona singolare quello tace= lu-là al tès
3° persona singolare egli tace= ló al tès
3° persona singolare lei tace= lî la tès
3° persona singolare quella tace= lî-là la tès
3° persona singolare essa tace= lî la tès
1° persona plurale noi taciamo= nó a tasän
1° persona plurale noi altri taciamo = nuéter a tasän
1° persona plurale noi altre taciamo = nuétri a tasän
2° persona plurale voi tacete = vó a tasî
2° persona plurale voi altri tacete = vuèter a tasî
2° persona plurale voi altre tacete = vuètri a tasî
3° persona plurale loro tacciono (maschile)=låur i tèsen
3° persona plurale loro tacciono (femminile)=låur äl tèsen

VERBO TOCCARE= TUCHÉR

indicativo presente

1° persona singolare io tocco= mé a tåcc
2° persona singolare tu tocchi = té t tåcc
3° persona singolare lui tocca= ló al tåcca
3° persona singolare quello tocca= lu-là al tåcca
3° persona singolare egli tocca= ló al tåcca
3° persona singolare lei tocca= lî la tåcca
3° persona singolare quella tocca= lî-là la tåcca
3° persona singolare essa tocca= lî la tåcca
1° persona plurale noi tocchiamo= nó a tucän
1° persona plurale noi altri tocchiamo = nuéter a tucän
1° persona plurale noi altre tocchiamo = nuétri a tucän
2° persona plurale voi toccate = vó a tuchè
2° persona plurale voi altri toccate = vuèter a tuchè
2° persona plurale voi altre toccate = vuètri a tuchè
3° persona plurale loro toccano (maschile)= låur i tåcchen
3° persona plurale loro toccano (femminile)= låur äl tåcchen
3° persona plurale loro dormono (femminile)=låur äl dormen

VERBO URLARE= SVARSLÈR


1° persona singolare io urlo= mé a svêrsel
2° persona singolare tu urli= té t svêrsel
3° persona singolare lui urla= ló al svêrsla
3° persona singolare quello urla= lu-là al svêrsla
3° persona singolare egli urla= ló al svêrsla
3° persona singolare lei urla = lî la svêrsla
3° persona singolare quella urla= lî-là la svêrsla
3° persona singolare essa urla= lî la svêrsla
1° persona plurale noi urliamo= nó a svarslän
1° persona plurale noi altri urliamo = nuéter a svarslän
1° persona plurale noi altre urliamo = nuétri a svarslän
2° persona plurale voi urlate = vó a svarslè
2° persona plurale voi altri urlate = vuèter a svarslè
2° persona plurale voi altre urlate = vuètri a svarslè
3° persona plurale loro urlano (maschile)= låur i svêrslen
3° persona plurale loro urlano (femminile)=låur äl svêrslen

USARE= (A)DRUVÈR
 (la A fra parentesi nel verbo all’infinito è praticamente muta, mentre figura in diverse persone della coniugazione. Non lo chiedete a me, perché in questo caso andrei a “occhio”.

1° persona singolare io uso= mé adrôv
2° persona singolare tu usi= té t adrôv
3° persona singolare lui usa= ló al adrôva
3° persona singolare quello usa= lu-là adrôva
3° persona singolare egli usa= ló l’ adrôva
3° persona singolare lei usa= lî l’ adrôva
3° persona singolare quella usa= lî-là l’ adrôva
3° persona singolare essa usa= lî l’adrôva
1° persona plurale noi usiamo= nó adruvän
1° persona plurale noi altri usiamo = nuéter adruvän
1° persona plurale noi altre usiamo = nuétri adruvän
2° persona plurale voi usate = vó adruvè
2° persona plurale voi altre usate  =  vuètri adruvè
3° persona plurale loro usano (maschile)= låur i adrôven
3° persona plurale loro usano (femminile)=låur äli adrôven

 VERBO VEDERE= VÀDDER

indicativo presente


1° persona singolare io vedo= mé a vadd
2° persona singolare tu vedi = té t vadd
3° persona singolare lui vede= ló al vadd
3° persona singolare quello vede= lu-là al vadd
3° persona singolare egli vede= ló al vadd
3° persona singolare lei vede= lî la vadd
3° persona singolare quella vede= lî-là la vadd
3° persona singolare essa vede= lî la vadd
1° persona plurale noi vediamo= nó a vdän
1° persona plurale noi altri vediamo = nuéter a vdän
1° persona plurale noi altre vediamo = nuétri a vdän
2° persona plurale voi vedete = vó a vdî
2° persona plurale voi altri vedete = vuèter a vdî
2° persona plurale voi altre vedete = vuètri a vdî
3° persona plurale loro vedono (maschile)= låur i vàdden
3° persona plurale loro vedono (femminile)= låur äl vàdden

VERBO VOLERE= VLAIR

indicativo presente

1° persona singolare io voglio= mé a vói

2° persona singolare tu vuoi = té t vû

3° persona singolare lui vuole= ló al vôl
3° persona singolare quello vuole= lu-là al vôl
3° persona singolare egli vuole= ló al vôl
3° persona singolare lei vuole= lî la vôl
3° persona singolare quella vuole= lî-là la vôl
3° persona singolare essa vuole= lî la vôl
1° persona plurale noi vogliamo= nó a vlän
1° persona plurale noi altri vogliamo = nuéter a vlän
1° persona plurale noi altre vogliamo = nuétri a vlän
2° persona plurale voi volete = vó a vlî
2° persona plurale voi altri volete = vuèter a vlî
2° persona plurale voi altre volete  =   vuètri a vlî
3° persona plurale loro vogliono (maschile)=låur i vôlen
3° persona plurale loro vogliono (femminile)=låur äl vôlen



lunedì 23 gennaio 2023

Dialetto bolognese, coniugazione verbi: parlare, salutare, sapere, sentire

 


PARLARE= DSCÅRRER



1° persona singolare io parlo= mé a dscårr
2° persona singolare tu parli = té t dscårr
3° persona singolare lui parla= ló al dscårr
3° persona singolare quello parla= lu-là al dscårr
3° persona singolare egli parla= ló al dscårr
3° persona singolare lei parla= lî la dscårr
3° persona singolare quella parla= lî-là la dscårr
3° persona singolare essa parla= lî la dscårr
1° persona plurale noi parliamo= nó a dscurän
1° persona plurale noi altri parliamo = nuéter a dscurän
1° persona plurale noi altre parliamo = nuétri a dscurän
2° persona plurale voi parlate = vó a dscurî
2° persona plurale voi altri parlate = vuèter dscurî
2° persona plurale voi altre parlate = vuètri a t dscurî
3° persona plurale loro parlano (maschile)= låur i dscårren
3° persona plurale loro parlano (femminile)= låur äl dscårren

VERBO SALUTARE=  SALUTÈR

1° persona singolare io saluto= mé a salût
2° persona singolare tu saluti= té t salût
3° persona singolare lui saluta= ló al salûta
3° persona singolare quello saluta= lu-là al salûta
3° persona singolare egli saluta= ló al salûta
3° persona singolare lei saluta= lî la salûta
3° persona singolare quella saluta= lî-là la salûta
3° persona singolare essa saluta= lî la salûta
1° persona plurale noi salutiamo= nó a salutän
1° persona plurale noi altri salutiamo = nuéter a salutän
1° persona plurale noi altre salutiamo =nuétri a salutän
2° persona plurale voi salutate = vó a salutè
2° persona plurale voi altri salutate = vuèter a salutè
2° persona plurale voi altre salutate = vuètri a salutè
3° persona plurale loro salutano (maschile)= låur i salûten
3° persona plurale loro salutano (femminile)=låur äl salûten

VERBO SAPERE= SAVAIR

indicativo presente


1° persona singolare io so= mé a sò
2° persona singolare tu sai= té t sè
3° persona singolare lui sa= ló al sà
3° persona singolare quello sa= lu-là al sà
3° persona singolare egli sa= ló al sà
3° persona singolare lei sa= lî la sà
3° persona singolare quella sa= lî-là sà
3° persona singolare essa sa= lî la sà
1° persona plurale noi sappiamo= nó a savän
1° persona plurale noi altri sappiamo = nuéter a savän
1° persona plurale noi altre sappiamo = nuétri a savän
2° persona plurale voi sapete = vó a savî
2° persona plurale voi altri sapete = vuèter a savî
2° persona plurale voi altre sapete = vuètri a savî
3° persona plurale loro sanno (maschile)= låur i san
3° persona plurale loro sanno (femminile)= låur äl san

VERBO SENTIRE= SÉNTER

indicativo presente

1° persona singolare io sento= mé a sént
2° persona singolare tu senti = té t sént
3° persona singolare lui sente= ló al sént
3° persona singolare quello sente= lu-là al sént
3° persona singolare egli sente= ló al sént
3° persona singolare lei sente= lî la sént
3° persona singolare quella sente= lî-là la sént
3° persona singolare essa sente= lî la sént
1° persona plurale noi sentiamo= nó a sintän
1° persona plurale noi altri sentiamo = nuéter a sintän
1° persona plurale noi altre sentiamo = nuétri a sintän
2° persona plurale voi sentite = vó a sintî
2° persona plurale voi altri sentite = vuèter a sintî
2° persona plurale voi altre sentite = vuètri a sintî

domenica 22 gennaio 2023

Dialetto bolognese, coniugazione verbi: dormire, fare, finire.


VERBO DORMIRE=  DURMÎR

1° persona singolare   io dormo= mé a  dôrum
2° persona singolare tu dormi=  té t dôrum
3° persona singolare lui dorme=  ló al dôrum
3° persona singolare quello dorme=  lu-là al dôrum
3° persona singolare egli dorme=  ló al dôrum
3° persona singolare lei dorme=  lî la dôrum
3° persona singolare quella dorme=  lî-là la dôrum
3° persona singolare essa dorme=  lî la dôrum
1° persona plurale      noi dormiamo= nó a durmän
1° persona plurale      noi altri dormiamo = nuéter a durmän
1 persona plurale      noi altre dormiamo = nuétri a durmän
2° persona plurale voi dormite  =  vó a durmî
2° persona plurale voi altri dormite  =  vuèter a durmî
2° persona plurale voi altre dormite  =   vuètri a durmî

VERBO FARE= FÈR

indicativo presente


1° persona singolare   io faccio= mé a fâg
2° persona singolare  tu fai=  té t fè
3° persona singolare lui fa=  ló al fà
3° persona singolare quello fa=  lu-là al fà
3° persona singolare egli fa=  ló al fà
3° persona singolare lei fa=  lî la  fà
3° persona singolare quella fa=  lî-là la fà
3° persona singolare essa fa=  lî la  fà
1° persona plurale      noi facciamo=   nó a fän
1° persona plurale      noi altri facciamo = nuéter  a  fän
1° persona plurale      noi altre facciamo = nuétri a  fän
2° persona plurale voi fate  =  vó a fè
2° persona plurale voi altri fate  =  vuèter a fè
2° persona plurale voi altre fate  =   vuètri a fè
3° persona plurale loro fanno (maschile)= låur i fan
3° persona plurale loro fanno (femminile)= låur äl fan

VERBO FINIRE= FINÎR


1° persona singolare io finisco= mé a finéss
2° persona singolare tu finisci= té t finéss
3° persona singolare lui finisce= ló al finéss
3° persona singolare quello finisce= lu-là al finéss
3° persona singolare egli finisce= ló al finéss
3° persona singolare lei finisce= lî la finéss
3° persona singolare quella finisce= lî-là la finéss
3° persona singolare essa finisce= lî la finéss
1° persona plurale noi finiamo= nó a finän
1° persona plurale noi altri finiamo = nuéter a finän
1° persona plurale noi altre finiamo = nuétri a finän
2° persona plurale voi sembrate = vó a finî
2° persona plurale voi altri finite = vuèter a finî
2° persona plurale voi altre finite = vuètri a finî
3° persona plurale loro finiscono (maschile)=låur i finéssen
3° persona plurale loro finiscono (femminile)=låur äl finéssen