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mercoledì 23 aprile 2025

Pasqua a Bologna



Pasqua a Bologna

Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, la Pasqua era una delle festività più attese per i riti religiosi che si compivano e per le prelibatezze che si preparavano in cucina. La Pasqua commemora la morte e la resurrezione di Cristo e per i credenti significa il rinnovarsi di gioia e di speranza: insomma un vero e proprio preludio per un tempo migliore (basti pensare al detto “sono contento come una Pasqua”). 

Il Giovedì Santo (che ricorda l’Ultima Cena e precede la morte del Redentore) venivano legate le campane e in tutte le chiese venivano preparati i cosiddetti “sepolcri”, ovvero una cappella veniva allestita per contenere tutti gli oggetti consacrati e le ostie, che avrebbero potuto essere distribuite nuovamente solo nella notte di Pasqua. Per ricevere fortuna, il numero di “sepolcri” da visitare doveva assolutamente essere dispari. Si tramanda così una prassi ordinata dal cardinale Gabriele Paleotti, che trovò la piena formulazione nel settecento, dando forma a solenni liturgie e scenografie effimere. Il Giovedì Santo l’ostia, tolta dal tabernacolo, viene posta nel Repositorio, popolarmente chiamato Sepolcro in ricordo della morte di Gesù. 

Il Sabato Santo al “Gloria in excelsis”, durante la messa, le campane venivano finalmente slegate e finita la funzione i ragazzini accompagnavano il festoso scampanio facendo scoppiare i mortaretti, altrimenti detti “bussi”. Gli adulti li trascinavano poi verso le fontane (se erano fuori) o ai più vicini rubinetti di casa per bagnarsi gli occhi: la tradizione, infatti, voleva che questo significasse preservare la vista da ogni malattia per tutto l’anno. 

Il Sabato Santo vi era però un altro rito: le massaie preparavano le uova da benedire ornandole di ramoscelli d’ulivo e le portavano in parrocchia dentro cestini o grandi tovaglioli. Quelle stesse uova sarebbero state consumate sode, a digiuno oppure utilizzate durante il pranzo della domenica: per le minestre, con il riso e con il salame. Soprattutto nei quartieri popolari o in campagna, poi, i bambini le usavano per giocare “a scuzzatt”, ovvero battevano tra loro le rispettive uova sode; colui o colei cui rimaneva in mano un uovo integro risultava il vincitore: voleva dire che il suo aveva avuto il guscio più resistente. 

Finalmente, poi, arrivava il pranzo domenicale: profumatissimo brodo con tortellini o con passatelli; bollito e salse; per chi poteva, anche l’agnello. E i dolci? Ciambella e zuppa inglese non potevano mancare assolutamente. Per i bambini più fortunati c’erano anche agnellini e ovini di zucchero, che facevano bella mostra nelle vetrine delle latterie. Altro che colombe in tutte le varianti possibili e immaginabili; uova, galline e conigli di cioccolata come oggi! 

Il clou veniva il Lunedì dell’Angelo, il “Lonedé ed Pascua”, quando – secondo la tradizione più radicata – i Bolognesi salivano a San Luca per una scampagnata: prima a piedi, lungo i famosi portici di via Saragozza e del Meloncello oppure su per il sentiero dei Bregoli da Casalecchio e, successivamente, con la moderna funivia. Dopo un frettoloso omaggio alla Vergine, tutti sul prato per gustare altre leccornie. 

Fonte: storiaememoriadibologna.it 

Immagine: Gita a San Luca, metà anni Cinquanta (fonte: Bologna Fotografata).

lunedì 21 aprile 2025

Arrivederci Papa Francesco!


Questa mattina ci è giunta una notizia che ci ha lasciato tutti increduli. Si, sapevamo che aveva goduto giorni migliori in quanto a salute, ma il nostro Papa ci sembrava in un lento recupero. Invece, dopo aver voluto essere in mezzo alla sua gente e benedire ieri la piazza per il giorno di Pasqua, questa mattina ci ha lasciato. Non credo di sbagliare nell'asserire che ha pervaso in tutti noi, quanto meno un senso di tristezza, di vuoto.  Il papa venuto da lontano...una persona speciale, cercare di definirla sarebbe sminuire la sua personalità.

Ognuno porterà qualcosa di lui nel suo cuore, non posso fare altro che dire Grazie e che ci ha lasciato troppo presto.

Arrivederci Francesco!






Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco : 13 Marzo 2013 / 21 Aprile 2025



sabato 19 aprile 2025

Preparazione alla Pasqua: lodi mattutine

Sabato santo. Inizio della giornata con le lodi mattutine. Questo anno si sono tenute nella Chiesa di S.S. Vitale e Agricola a Granarolo. Sono stata contenta, perchè c'erano anche ragazzi giovani, cosa che non è così scontata in questo periodo. Spero l'anno prossimo possano essere ancora di più.

La giornata è proseguita con la benedizione tradizionale delle uova e adorazione; questa volta sono andata a Viadagola, la mia chiesa del cuore. Mi ha fatto piacere vedere come l'hanno addobbata, molto bella. Complimenti! 





 Buona Pasqua! 

domenica 21 gennaio 2024

Sant'Antonio!

 

Come tutti gli anni celebriamo la festività di Sant'Antonio. E' una festa a cui sono particolarmente legata, non ho un motivo particolare, se non che tutti gli anni mio suocero mi raccontava la storiella del fattore incredulo, ma mi sento molto partecipe. C'è stata la tipica benedizione dei panini per i nostri amici animali a quattro e due zampe e anche, perchè no, per i loro padroni. Si è tenuta la sera stessa del 17 gennaio a Viadagola, poi ripresa anche la domenica successiva durante la messa  a Lovoleto. Io la trovo una tradizione bellissima, da trasmettere sicuramente anche ai giovani, con la speranza che si tramandi.

 
i panini




Riporto qualche curiosità che ho trovato navigando in internet che mi sono parse carine.

Sant'Antonio e la neve

In alcune zone d'Italia si è soliti dire che Sant'Antonio sia un mercante della neve: se infatti durante il 17 gennaio splende il sole e fa buon tempo, allora il santo ne starà approfittando per andare al mercato e comprare la neve da spargere sulla Terra nei giorni successivi.

Sant'Antonio Abate, il santo protettore degli animali domestici

Oltre alle capacità taumaturgiche contro l'Herpes Zooster, Sant’Antonio è ricordato come santo protettore degli animali domestici. Ogni anno, in occasione della sua festa, il 17 gennaio, è tradizione in molti paesi d'Italia portare a benedire gli animali domestici e gli animali delle stalle. Questa tradizione nacque in epoca medievale e deriva dagli allevamenti di maiali dei monaci Antoniani, i seguaci di Sant’Antonio, destinati a creare preparati medicamentosi e a sfamare i bisognosi. Sant’Antonio divenne così patrono dei maiali prima, e degli animali della stalla e domestici poi.

Perchè il Santo è spesso rappresentato con lingue di fuoco ai piedi?

Sant'Antonio Abate non di rado viene rappresentato nell'iconografia cristiana con un maialino ai piedi, oppure con lingue di fuoco. Il santo è infatti considerato il custode del fuoco perchè, secondo una leggenda, egli sarebbe sceso all'inferno per alleviare le sofferenze dei peccatori e liberarne le anime. Il fuoco rappresentato ai piedi del santo è inoltre associato all'Herpes Zooster, meglio noto come il "fuoco di Sant'Antonio", una malattia che causava dolorose piaghe sulla pelle ma che il santo d'Egitto era capace di curare.

La notte del 17 gennaio gli animali... parlano!

Secondo le credenze popolari, durante la notte del 17 gennaio gli animali domestici  acquisirebbero la facoltà di parola. Ma attenzione! Sentirli parlare non sarebbe di buon auspicio, dunque anticamente contadini ed allevatori solevano tenersi lontani dalle stalle e, in più,  farle benedire da un sacerdote.


lunedì 18 dicembre 2023

Il porto a Bologna


 In passato anche Bologna aveva un porto,  anzi uno dei porti fluviali più importanti dell'Italia settentrionale, in realtà erano cinque. Per secoli i trasporti, sia di merci che di persone, nella pianura padana furono effettuati su acqua.  Nacque "attorno alla metà del ‘500 a seguito dell’incremento di scambi commerciali per via fluviale sviluppatisi grazie alla fitta rete di canali che trasportavano le acque del fiume Reno dalle colline circostanti direttamente al centro della città . Originariamente le vie di acqua venivano utilizzate come erano, come le aveva modellati la natura, poi, in periodi diversi i comuni emiliani,  a seguito della necessità di incrementare i trasporti e ridurre i costi, costruirono vari canali navigabili per collegare le città al Po,. Nel XIII secolo si provvede a scavare il canale Navile alimentato dalle acque del Reno e Savena e dei diversi corsi d'acqua provenienti dalle colline. Fino alla seconda metà del XVIII secolo la navigazione da Bologna al Po veniva suddivisa in due tratti: 

- da Bologna a Malalbergo tramite il canale Navile su barche trainate da cavalli o buoi. Questo tratto è lungo circa 36 km,;a Malalbergo vi era una stazione di sosta dove i viaggiatori potevano ristorarsi in una locanda alquanto malfamata (da qui il nome del paese). 

- da Malalbergo a Ferrare tramite  le paludi . A Malalbergo le merci e i passeggeri venivano trasbordati su barche a fondo piatto che i barcaioli spingevano a remi  fino a Ferrara.. Giunti a Ferrara si aveva un trasbordo su banche più grandi, spesso a vela, per il tratto finale fino a Venezia. Era consuetudine  il traino di più barche in convoglio anche per ragioni di sicurezza, spesso questi convogli viaggiavano con una scorta armata. il viaggio per le persone non era certo comodo, da Bologna a Corticella occorrevano circa 4 ore causa i molti sostegni da passare (punti in cui confluiscono tutte le acque in uscita dalla città), 7 ore per raggiungere Malalbergo. 

Uno di questi canali, attualmente interrato, all’incrocio tra via di Riva Reno e via Marconi si divide in due, il canale del Cavaticcio prosegue verso Largo Caduti del Lavoro ove oggi si affacciano alcuni degli uffici della Direzione Territoriale Emilia Romagna e Marche e si dirige verso via del Porto, chiamata così perché da qui iniziavano le banchine dell’allora porto fluviale di Bologna, il Navile. Non distante dall’attuale Ufficio ADM di Bologna, sorgeva l’edificio della Dogana, sede della Gabella Grossa, punto di partenza e di arrivo delle merci che viaggiavano sul Navile. La somiglianza con una chiesa e la presenza sul canale delle lavandaie furono causa del nome popolare che questo edificio ebbe: la "cisa di lavandèr", la chiesa dei lavandai. I proventi dei dazi sulle merci servirono per secoli a finanziare l'Università. L’edificio, così come il porto urbano, furono demoliti nel 1934.

Attualmente del porto di Bologna resta solo la "Salara", la "ripe del gesso" e un'ampia porzione della banchina portuale.


Salara


 

mercoledì 20 settembre 2023

La domenica dell'agricoltore, anno 3 n. 28 pag 3


 La recente smentita, altrettanto energica quanto opportuna, data dallo  stesso  Uficio Stampa del Capo del Governo alla intervista concessa da un membro del Comitato Permanente del grano, secondo cui sarebbe e prevedibile un raccolto di settanta milioni di quintali di frumento, diceva testualmente che di vittoria si può parlare quando la si stringe nel pugno. Veramente questo è lo stile fascista a cui Musolini ci  ha abituato  o meglio, va abituando gli italiani dandone personalmente, come sempre, il primo e più luminoso esempio. La vittoria della lira è stata proclamata d'improvviso, dal Duce,  quasi di sorpresa, senza suon di fanfara, sbandieramenti e scampanii, quando nessuno, tranne i Suoi più diretti collaboratori, riteneva che potesse essre cosi grandiosa e imminente. La vittoria del grano è una meta forse più vicina di quanto generalmente si crede e più radiosa di quanto lo immagina la massa degli italiani. Ma non è ancora una realtà.

Un raccolto di 70 milioni di quintali, come quello preannunciato con giovanile esuberanza e intempestivo entusiasmo, sarebbe un magnifico successo e un sicuro prodromo di vittoria, per un'annata non del tutto favorevole alla coltivazione del grano. Si tenga presente (ciò che molti italiani dalla memoria labile dimenticano troppo facilmente o volentieri fingono di non ricordare) che nel 1917 e nel, 1920 siamo scesi a 38 milioni di quintali, che la produzione annua media non tocca i 50 milioni e il massimo prodotto ottenuto prima dell'inizio della battaglia del grano, in un'annata eccezionalmente favorevole, è stato di 65 milioni, mentre il fabbisogno nazionale non supera i 75.

Invece di importare venticinque milioni di quintali di grano dall'estero per un valore di 3000 milioni di lire basterebbe a noi acquistare cinque milioni di quintali per un complesso di 600 milioni di lire. Verrebbero cosi risparmiati circa due miliardi e mezzo di cui beneficerebbero non solo gli agricoltori ma si può ben dire

tutti gli italiani. Sarebbe questo un grande risultato di cui Mussolini Belluzzo potrebbero ben andar fieri non soltanto di fronte agli italiani ma anche al cospetto del mondo intero. L'ansiosa e legittima impazienza degli agricoltori di conoscere le prospettive del raccolto è il segno della loro appassionata speranza di offrire, coi frutti delle proprie fatiche, il meritato premio del Duce  della battaglia del grano: la Vittoria. Se di vittoria non si deve oggi parlare si può tuttavia constatare che l’esercito degli agricoltori e dei contadini italiani marca compatto, guidato da condottieri infallibili e da uno Stato Maggiore di tecnici esperti, verso la vittoria, deeciso a ottenerla a qualunque costo, presto o tardi, ma piena e assoluta.

Crto un nuovo balzo in avanti si farà. Verrà sicuramente superata la media, sarà superata la media, sarà superata la produzione dell’anno scorso ed è a sperare che sarà pure superata la produzione massima sinora ottenuta. Si toccheranno i 70 milioni di quintali? Una risposta sarebbe prematura e, non solo per gli effetti di natura psicologica che può avere sulle masse ma anche per l’influenza che sicuramente eserciterebbe sul mercato granario,  per lo meno inopportuna. L’ultima parola, ormai, è alle trebbiatrici: esse solo possono e debbono dirci tutta le verità. Il Duce ascolta, nelle notti insonni, il  loro canto ed esse non mentiranno a Lui che ha dato tante e così eloquenti prove agli agricoltori italiani del Suo amore per la terra e del Suo affetto sincero e profondo per coloro che ha chiamato “ forze fondamentali, in guerra e in pace, delle fortune della Patria”, i Suoi fratelli nella grande fatica.

MARIO FERRAGUTI

 La settimana agricola del Duce e dell’on. Belluzzo

Il capo del Governo ha avuto un lungo colloquio col Ministro dell’Economia Nazionale, on. Belluzzo, il quale gli ha riferito su varie questioni interessanti l’agricoltura in generale e in particolare sull’andamento dei raccolti. In proposito il Ministro ha successivamente comunicato alcune interessanti notizie: da esse si rileva che dappertutto i lavori agricoli hanno avuto ed hanno corso con piena alacrità, nell’atmosfera di operosa fiducia che il Regime ha saputo creare in ogni campo della produzione nazionale. Le autorevoli comunicazioni del Ministro dell’Economia Nazionale, aggiungono che “i rurali hanno seguito il comandamento del Duce, prodigando le cure consigliate dalla tecnica”.

Un altro colloquio il Capo del governo ha avuto con il Direttore dell’Istituto Centrale di Statistica, prof. Corrado Gitti, il quale lo ha informato del favore che l’Istituto stesso svolge e delle istruzioni impartite per un severo censimento del grano trebbiato. Ciò secondo la precisa volontà del Duce che, come già informammo, diede tassative istruzioni ai Prefetti per una scrupolosa osservanza alle disposizioni circa la denunzia della trebbiatura. Il colloquio in parola è una conferma chiara che la denunzia del grano trebbiato ha uno scopo esclusivamente statistico senza alcuna mira fiscale.

In forma solenne, in tutta Italia si sono insediati il 17 corrente i Consigli provinciali dell’Economia, nuova originale istituzione del Regime, che costituisce anche un importantissimo esperimento dell’ordinamento corporativo.

All’atto dell’insediamento è stato letto un messaggio del duce. E’ molto significativo, in esso, la parte in cui accenna ai compiti dei nuovi organi, di fronte ai problemi della agricoltura: “Nella raccolta e nella elaborazione degli elementi d’indagine – ha ammonito Mussolini – la terra e il sottoterra vanno con speciale attenzione esaminate affinchè per ogni qualità ed ubicazione di terreno siano indicate le culture più adatte ed i mezzi tecnici ed economici per incrementarle”.

Il Capo del Governo ebbe in omaggio, tempo addietro da un agricoltore molisano, il signor Francesco De’ Vaira, podestà di Montenero Bisaccia, un appezzamento di 30 ettari, del valore di circa 300 mila lire, per la creazione di una tenuta modello che servisse di esempio agli agricoltori del Mezzogiorno. Benchè si trattasse, secondo la volontà dell’offerente, di un dono personale al Duce, questi ha destinata la tenuta all’Opera Nazionale Combattenti la quale ha già redatto un piano di lavori di trasformazioni e di miglioramenti fondiari.

Il Ministro Belluzzo ha, con recente circolare, impartito precise istruzioni circa il funzionamento amministrativo delle Cattedre Ambulanti, specie per quello che riguarda i servizi inerenti all’insegnamento professionale dei contadini e alla “Battaglia del Grano” ed ha pertanto disposto periodiche e frequenti ispezioni alle Cattedre stesse.


giovedì 4 maggio 2023

Magnesia San Luca


 Rovistando tra i ninnoli che ho conservato dei miei suoceri, ho trovato questa bellissima scatolina, che denuncia tutti i suoi anni. Io sono rimasta molto sorpresa, perchè sinceramente non avevo mai sentito parlare della magnesia San Luca, nonostante io sia nata ai piedi della Basilica che veglia su Bologna. Nemmeno farlo apposta, nello stesso momento mi giunge la telefonata della mia santola, a cui domando se era a conoscenza di questa, lei mi conferma di si, che era una scatolina molto carina di magnesia, che si teneva in tasca per l'occorrenza, nel caso anche di cattiva digestione o si assumeva la sera per facilitare le funzioni del corpo. Io adoro le scatole di latta, quelle antiche poi...figuriamoci! E' stato davvero un grande regalo inaspettato questo per me, che ovviamente ho già riposto con la massima della cura.

Facendo ricerche ho trovato la ditta fu registrata presso la Camera di Commercio di  Bologna il giorno 11.05.1927. Non mi risulta essere ancora in essere.


domenica 29 gennaio 2023


 CASTEL MAGGIORE 

La comunità di Castel Maggiore da sempre è stata considerata molto operosa: ne è testimonianza il fatto che nell'emblema del gonfalone comunale sono raffigurate tre api, quale segno, appunto, di operosità della sua popolazione. Ma è una comunità molto attenta anche ai problemi sociali ed economici ed ha mantenuto questa sensibilità nonostante il raddoppio della popolazione in questi ultimi 30 anni (da 6.000 a 13.000 ab.) e le conseguenti profonde trasformazioni nella economia e nel tessuto sociale.

Quali invece gli effetti e le cause di questa trasformazione? L'effetto è stato una continua espansione dei residenti nei centri abitati, capoluogo in particolare, nella frazione di Trebbo di Reno, nel nuovo quartiere 1° Maggio vicino a Corticella, il progressivo abbandono delle case rurali (66 sono quelle disabitate) e l'insediamento di più di 1000 aziende produttive e commerciali, medie e piccole, per gran parte a carattere artigianale.

Le cause sono da un lato di carattere generale, dovute al forte sviluppo industriale degli anni 60-70, dall'altro la crisi agricola generale con una particolarità locale dovuta a una forte presenza di una conduzione agricola di tipo familiare con contratto a mezzadria; erano 200 famiglie con più di 1000 addetti, ora quasi completamente azzerate.

Questo tipo di conduzione entrò in crisi, in parte, perché il lavoro, oltretutto pesante, era poco remunerato, ma anche per una normativa contrattuale di tipo feudale quale era la mezzadria e infine per l'evolversi dei nuclei famigliari nei quali le forze giovanili non erano più disponibili ad accettare quelle condizioni economiche e di lavoro, e si ribellavano pure alla gestione familiare di tipo patriarcale dove, nella maggioranza dei casi, il capo famiglia amministrava e decideva tenendo all'oscuro della realtà economica e finanziaria, il resto della famiglia. In molti casi, famiglie si sono sciolte abbandonando i poderi con veri e propri traumi, per scontri durissimi fra vecchie e nuove generazioni.

Questo comune nella storia dell'ultimo secolo annovera anche un'altra particolarità, e cioè aon ha mai avuto una economia totalmente agricola, ma ha sempre avuto un nucleo operaio notevole, costituito dalla presenza della Fabbrica «Barbieri» con più di un secolo di vita, e della Riseria «Cantelli ubicate ambedue al «Castello»> Borgata Storica, attraversata dal Canale Navile, attualmente in fase di avanzata ristrutturazione con un tipo di restauro conservativo.

Fin dalla fine del secolo scorso questo Centro abitato è sempre stato un luogo di incontri e di confronto dei cittadini sui problemi sociali, politici ed economici e di iniziative di solidarietà. Attorno al 1880 fu costituita in quella Borgata (che ospitava in quel periodo quasi tutte le Istituzioni Pubbliche del Comune) una Società di Mutuo Soccorso; era un tipo di iniziativa solidaristica per aiutare i più diseredati attingendo da un fondo costituito da offerte dei soci, compreso anche qualche benestante dell'epoca. La bandiera di quella Associazione è conservata nella Sala di Giunta del Municipio.

La Barbieri in quei tempi era prevalentemente una fonderia con una produzione altamente qualificata, in seguito si specializzò in grandi impianti frigoriferi, produzione che continua attualmente sotto il nome di «Tecnofrigo».

La Cantelli era invece una piccola azienda per la lavorazione del riso che arrivava grezzo dalle risaie della bassa bolognese e con macchine apposite veniva sbucciato e reso commestibile. Il riso arrivava per gran parte da Bentivoglio trasportato con dei barconi lungo il Canale Navile, trainati da cavalli che percorrevano la sponda del fiume; arrivati in prossimità della fabbrica si procedeva alla chiusura del corso d'acqua a valle della barca con apposita paratoia, in modo che il livello dell'acqua si alzava fino a portare la barca stessa al piano di scarico.

Per finire questa breve e sintetica presentazione voglio aggiungere che nel territorio di Castel Maggiore ci sono 8 antiche ville, a suo tempo abitate da altrettanti proprietari terrieri, costruite a cavallo del 16° e 17° secolo. Una di queste, «Villa Salina», circa 10 anni or sono è stata acquistata dalla Regione Emilia Romagna e viene utilizzata per diverse e svariate attività: Convegni, ti di aggiornamento ed anche incontri di rappresentanza. Infine voglio ricordare che da Castel Maggiore ha preso le mosse il museo della Civiltà contadina  (che ha sete attualmente a Villa Smeraldi a Bentivoglio) attraverso un gruppo denominato della  Stadura che iniziò, negli anni 60, la raccolta di cimeli, strumenti, attrezzi e macchine d'epoca che servivano nei tempi antichi per la produzione e le lavorazioni dei prodotti dell'agricoltura . Appositamente conservati , puliti e riparati furono poi trasferit a Villa Smeraldim dopo gli opportuni  accordi con l'Amministrazione Provinciale proprietaria della Villa, i Comuni di Castel Maggiore,di Bentivoglio e il Comune di Bologna


Al non Gaitan, par el fest ed nadel

-Nel ripercorrere con la memoria il tempo a ritroso, una delle cose che ha lasciato piacevoli ricordi legati alla mia infanzia, è anche questa che sto per narrare. Eravamo intorno agli anni che vanno dal 1946/47 fino agli anni 1952/53, la nostra famiglia era allora composta dai nonni paterni più mio padre «quel da dapiò» il più vecchio con mia madre ed io; mio zio «<al biôic» destinato ai lavori della stalla, con moglie e due figli, più un operaio a tempo indeterminato, «al minéstar» che viveva con la nostra famiglia e che ogni anno percepiva un salario preventivamente contrattato.

Il nonno, Gaitan, fra le altre mansioni, aveva quella di accudire alla cottura del pane, operazione questa che si verificava una volta la settimana di media. Non sto qui a raccontare la preparazione dell'impasto e della confezione del pane, ma vorrei raccontare come si procedeva in prossimità delle feste di Natale.

Di solito il 23 dicembre, calcolato opportunamente le quantità precedenti, era necessario accendere il forno per il pane e, finalmente, pensavamo noi bambini, per i dolci, non che durante il resto dell'anno non si mangiassero dolci, ma proprio perchè il Natale, consentiva maggiori varietà e più abbondanti quantità.

Averta la boca dal fouran, al s'rimpèva con di malghèr (steli di granoturco) di scarangion (steli di girasole) dou sfurchè ad spen zarven, taie in t'autón intla zè dri la strè, a si strichèva sòta una felda ad paia seca, po a si deva fug, prèma cai brusés incosa, a si zunteva du o tri fasét, parchè stavolta al fouran l'aveva da esar cheld ben.

Finito il fuoco, a quando il forno a giudizio del nonno era abbastanza caldo, als vudeva, dala zendar e dal bres piò lenti, as lasèva cascher la resa (la polvere) e po as laveva al pian ad cutura con un straz mói, lighè adcô da una perdga, al s'laseva srè suquant minut, e pó a s'infurneva al pan, live (lievitato) inváta a la rastlîra adnanz al fug in ca.

Mentre si cuoceva il pane, in casa, la mamma e la zia, sotto l'occhio sempre vigile della nonna, preparavano i dolci che andavano naturalmente cotti dopo aver cotto il pane, e quindi ad una temperatura più bassa.

Ad solit as fèva trei o quater beli brazadel, trei o quater grustè con al savour, zirca un chilo ad panon (panoni, non panettoni) una panira ad raviol e suquanti pasten (biscotti).

-Ades mè a c'fag al butîr - Diceva la nonna mettendo un paio di pani di burro, fatto in casa, in un tegame sulla cucina economica sempre calda ma non tanto da friggere il burro. Facendo questa operazione raccomandava alle nuore di usare poco zucchero, perché molto farebbe male ai denti, mentre in realtà era per risparmiare perchè dal canto loro le due «pasticcere» più giovani, già senza tale consiglio avevano le dosi non eccessive.

L'impasto era lo stesso per tutto tranne che per i panoni; as lavureva intla spartura e inveta al tulir, par nuetar cino l'ira festa granda, tanta grazia ad Dio, anc se l'ira dimóndi, l'aveva da durer da Nadel a Sant'Antoni, agli ultmi raviôl bagnè als magnevan la Veglia ad Sant'Antoni infati, e al premi, dou pron, con dou past la Vaglia ad Nadel, prema ad magner i maron d'intouran al fug.

sabato 28 gennaio 2023

Argelato

 



Appunti di storia

Argelato fu feudo fortificato di Matilde di Canossa. L'autorevole presenza di beni della con- tessa è comprovata da almeno due documenti. Con il primo, datato 9 luglio 1105, Matilde fa dono al capitolo della cattedrale di Bologna della Chiesa di San Michele di Argelata unitamente ad una parte rilevante della Massa di Torano, ora corrispondente a San Giorgio di Piano. Con il secondo, risalente al 1108, rinnova una concessione enfiteutica di un terreno ad uso agricolo posto nel borgo di Argelata a favore di Natalia e Giovanni Marzola (o, secondo altri, Mazzola). La località fu soggetta a frequenti e notevoli inondazioni del vicino fiume Reno (si rammentano, tra le altre, quelle del 1220 e del 1269), nonchè ad altrettanto frequenti incursioni e devastazioni da parte di soldatesche. Scrive l'abate Serafino Calindri che il territorio e castello di Argelata soggiacquero al saccheggio e all'incendio «a cui dovetter soggiacere tanti altri Castelli del territorio dopo la famosa rotta di Zappolino nel 1325». Nuovi danni ebbe ancora a patire, trent'anni più tardi, dall'esercito di Matteo Visconti. Tali devastazioni portarono ad una progressiva e inevitabile decadenza della località, tanto che il Calindri nel 1785 annotava: «dell'antico popolato suo Castello, o Terra, già feudo circa il mille della celebre Contessa Matilde, tante volte contrastato tra l'Impero e la Chiesa, nulla vi rimane di più che una elevata e quadrilunga motta di terra, o dicasi promontorio o piccol monticello, e l'orma di una larga fossa a poca distanza dalla medesima».

La chiesa parrocchiale di Argelato, dedicata a San Michele Arcangelo, risulta già nominata nella sopra richiamata donazione del 1105 e venne pressochè completamente riedificata negli anni 1462 e 1753. Il campanile fu edificato nel 1812 e successivamente restaurato nel 1839. La costituzione del Comune di Argelato risale al 1826. Sono da annoverarsi, infine, tra le principali istituzioni post-unitarie, la Società Operaia di Mutuo Soccorso, organizzatasi nel 1882 e la Cassa Rurale, fondata nel 1906. Con decreto prefettizio datato 31 marzo 1891 venne istituita ad Argelato un'annuale fiera di bestiami in concomitanza con la festa patronale di San Miche- le, cadente il 29 settembre. Tale fiera costituì per decenni un preciso punto di riferimento per l'economia locale.


Barcaròl, psiv'gnir a pasèrum?" ovverola storia dell'ultimo passatore del Reno 
Gasperini Attilio, classe 1908, è stato l'ultimo passatore del Reno della zona di Argelato Castello d'Argile. 1 Gasperini da generazioni e generazioni erano i traghettatori al Passo del Savignano (detto anche della Frattina), che collegava i territori sud-occidentali di Argelato e Argile con quelli di Padulle e Sala Bolognese.
Una zona assai popolata, un'economia legata strettamente all'agricoltura e al piccolo artigianato facevano del Passo del Savignano uno dei più importanti punti d'incontro delle genti qua e di là dal Reno almeno fino alla fine del secolo scorso; poi con la costruzione del ponte di Bagno (1880) e di quello di Buonconvento (1937) e l'avvento della motorizzazione anche l'antico mestiere del passatore è scomparso. Mestiere di famiglia dunque, ma anche se uno solo della famiglia era preposto a traghettare  tutti alla bisogna prestavano tale servizio, e Attilio Gasperini già a otto anni era stato messo sotto a tirare la barca. II Reno allora era molto più largo e al Savignano aveva uno specchio d'acqua di 60-70 metri; la barca veniva impiegata a traghettare dall'autunno alla primavera inoltrata mentre d'estate, dato il basso livello dell'acqua veniva montata una passerella in legno. Singolare  era il sistema di trasbordo da una sponda all'altra: una fune di acciaio lunga 150 metri attraversava il fiume ancorata da una parte a un grosso albero e dall'altra a un mulinello, tramite il quale la si teneva sempre a circa un metro sopra il livello d'acqua; la barca, di legno di quercia (en lunga sei metri e larga tre, alta 90 cm., con un pescaggio di soli 20 cm.), aveva un palo nel mezzo del quale vi erano due rulli ruotanti su di un perno attraverso cui scorreva la detta fune di acciaio che così teneva in guida la barca. Facendo presa con le mani sulla fune e tirando, il passator spostava la barca trasferendola dall'una all'altra sponda. Il servizio era dall'alba al tramonto veniva sospeso di notte; era un'attività utile a soli pedoni e biciclette e veniva retribuita con pocho soldi a persona (10 o 15 centesimi).
La domenica, le feste e i giorni di mercato erano quelli di maggiore traffico, ma certo che con questo mestiere non si campava e i Gasperini erano anche falegnami; riparavano carri e birocci e attrezzi agricoli, costruivano madie, tavole e armadi nella modesta bottega della casa del passatore.
I nuovi ponti sul Reno, la guerra, i clienti sempre più radi fecero sì che nel 1940 il servizi fosse sospeso: oggi nella golena al Savignano restano la vecchia casa dei Gasperini, una piccola cappella dedicata alla Madonna, e alcuni dei pali in rovere della passerella e delle rampe di accesso; il Reno in questo punto è molto più profondo e più stretto di una volta e una fitta vegetazione di alberi e arbusti impedisce addirittura di avvicinarsi a quello che fu uno dei più importanti traghetti sul Reno dei secoli passati, il passo del Savignano.

                            il traghetto al passo del Savignano, nei pressi di Argelato negli anni '30


Preghiere

A lèt a lèt a vói andèr, tótt i sânt a vói ciamèr, trị da cô e tri da pi, tótt i sânt i én mî fradî; la Madona l'è mî mèder, San Jusèf l'é mî pèder, San Lurènz l'é mî parènt, a pòs durmir sicurament. 

A letto a letto voglio andare, tutti i santi voglio chiamare tre da capo e tre da piedi, tutti i santi sono miei fratelli; la Madonna è mia madre, San Giuseppe è mio padre, San Lorenzo è mio parente, posso dormire sicuro.

Sant'Antòni dal campanén, s'an gn'é pân e s'an gn'é vén, s'an gn'é lègna in dal granèr, Sant'Antòni, cm'òja da fèr?

Sant'Antonio dal campanello, se non c'è pane e non c'è vino, se non c'è legna nel granaio; Sant'Antonio come devo fare?

Strofette di questua

Av sèn gnó a dèr al bòn cấp dân, ch'a campéssi zènt ân, zènt ân e un dé, la bóna màn la um véin a mê.

Son venuto a darvi il buon capo d'anno, che compiste cento anni, cento anno e un giorno, la fortuna venga a me.

'Zdoura, 'zdurátta, guardè in dla cassatta ch'ai é un pèz ed panzàtta, s'a num la darî, al gât av la purtarà vî.

Zdoura, zdouretta, guardate nella cassetta che c'è un pezzo di pancetta, se non me la darai il gatto ve la p

'Zdoura, a sèn par cranvèl, brasûla o fritèl, un quèl a vlen magnèr. Guardê in dla spaltûra s'ai è un pèz ed brasûla, guardê in dal casson s'ai è un pèz ed panon, guardê d'dòp a l'óss s'ai é un pèz ed parsótt, guardê in dla cassatta s'ai è un pèz ed panzàtta, anch s'l'à al peil am n'importa, basta ch'la stâga in dla mi sporta.

Zdoura, siamo per carnevale, fritelle, qualcosa vogliamo mangiare. Guardate nella spaltura se c'è un pezzo di brasula, guardate nel cassone se c'è un pezzo di panone, guardate dietro all'uscio se c'è un pezzo di prosciutto guardate nella cassetta se c'è un pezzo di pancetta anche se ha il pelo non importa, basta che stia nella mia sporta.

(Le prime due zirudelle avevano spesso lo scopo di vivacizzare gli incontri invernali nelle stalle «a trabb», le altre venivano recitate durante i matrimoni «i spusalézzi»).

 Al zirudèl d'la tradizion

Zirudèla stê a 'scultèr che un bèl chès av voi cuntèr: l'ètra sîra andand a trabb in d'la stâla d'Michelatt a' îra 'na dona fté da òmen ch'la pareva un galantomen, còn 'na zigaratta in bocca, guai a chi la tòcca. Al la tuché al fiôl d'Baravèla tich-u-dài la zirudèla.

Zuridèla d’cô di cópp di quaión ai n'é da par tótt ai n'é anch in mèz a l'èra toch e dài la zirudèla.

Zirudèla i mî parént, da magnèr an gn'é pió gnînt, ai n'é di drétt, ai n'é di gûb, a fèn un éviva ai spûs!

Zirudèla i mî aprént, da magnèr an gn'é pió gnînt, an gn'é gnanch 'na fatta d'murtadela, tich-u-dài la zirudèla.

Filastrocche infantili


Mâma, papà,
cumprêm un s'ciuptén d'ander a la câzia
a' mazzer i limalén,
i limalén di Frânza, cich e ciách få al tamburén!
cus'èt in dla tô pânza? Ai ò di fasulén:
Cilubén paséva al fiómm, la só mama l'i féva lómm,
 la lomm la s'e 'smurze, cilubén al s'é 'cupè.

Sgnour Nicôla, a voi dla côla,
ed cla côla ch'la s'incôla
S'la n'é côla
ch'la s'incôla,
sgnour Nicôla
an tói pió côlaqué da vó.

Seiga butèiga
Dilen (o Zanén) con la Dileida, un butiglién da l'òli
pr'ander in purgatori, un butiglién ad vén
da dèr ai sô fradlén (opp.: da der al piò cineni)

Pîta, pitèlaù
color sei fén,
la bela pulinèla sô par la schèla,
color sei bèla, par San Martén, schèla scalón, panna d'pavòn, acqua del mare, re re, figlio d'un re, ti tocca proprio a...te!
belle città.
metti dentro questo pè:

Riteniamo utile riportare alcune brevi osservazioni sugli ultimi due testi pubblicati. Sega buteiga» era una filastrocca che accompagnava un gioco di abilità infantile che si effettuan mani e una cordicella. Quest'ultima, dopo alcuni «passaggi» da un dito all'altro, dava l'imp ne del movimento di una vecchia sega da boscaiolo. «Pîta pitèla» (o «Pessa piasaelas) citata durante un gioco che cosi viene descritto da due studiosi di folclore: «I bambini d fila, si mettono a sedere con le gambe stese ed a piè pari, mentre uno di essi, il capo giocp in piedi, e recita la filastrocca, toccando, ad ogni fin di verso, un piede dei suoi compagni i  quali debbono subito ritirarlo (O. Trebbi-G. Ungarelli, Costumanze e tradizioni del popolo bolognese, Bologna 1932, p. 224).







Un quâich pruvêrbi dla campagna

Quand al temp al fà la lèna, a piov dènter dla stmèna (Quando il tempo fa la «lana», piove entro la settimana).

Novel souvra la breina, aqua o nèiv cl'ètra matèina (Nuvole sopra la brina, acqua o neve la mattina successiva).

Temp lús, aqua prodûs (Tempo luminoso, acqua produce). 

Elba rossa, o ch'la péssa o ch'la sóppia (Alba rossa, o piove o tira vento). 

Quand ai tira al muntàn, o ch'al piov inců o ch'al piov admàn (Quando soffia il vento montano o piove oggi o piove domani).

Par Santa Crous, furment spigous (Per Santa Croce «3 maggio», frumento con la spiga). 

La louna sitimbréina, sèt lòun s'inchéina (Alla luna settembrina sette lune s'inchinano: la situazione meteorologica non subirà cambiamenti per sette successivi pleniluni). 

Par San Lócca, chi n'à sumnè bóffa (Per San Luca » 18 ottobre», chi non ha ancora seminato deve «sbuffare» ).

Par Santa Catiréina, la guâza la dvènta bréina (Per Santa Caterina «25 novembre», la rugiada si trasforma in brina).

Par Santa Catiréina, o ch'al nèiva o ch'al bréina o ch'ai bât la paciaréina brina o che batte la pioggerellina)

(Per Santa Caterina, o che nevica o che c'è la brina  

Da Santa Catiréina a Nadèl, un mèis uguel (Da Santa Caterina a Natale, un mese uguale). 

Santa Bibiena, quaranta dé e 'na stmèna (Santa Bibbiana «2 dicembre», quaranta giorni e una settimana: l'andamento mete quel giorno si ripeterà per quaranta giorni e una settimana).

Bel Nadel, rustézz a Pasqua (Bel tempo a Natale, fuoco acceso a Pasqua).


venerdì 27 gennaio 2023

Granarolo Emilia parte 3



(casa Carini anni '80)

 (dialetto locale)

Ricordi di Gualtiero Bonfiglioli e Laura Bassi, in parte ravvivati dal libro di Armide Broccoli, "Chiamavano pane il pane"

L'arzdour -  L'arzdour l'era al càp famàja ch'al curèva i interès, l'andèva al marchè, al s'mitèva d'acòrd caun chi ètr'arzdòur par i turan dla zèrla, al distribuiva al mansiaun secònd al dèt "vàdar, prevàdar, udìr, capir, intàndar". Al mumàint più bròt dl'an l'era dòp l'incàuntar coun al padroun par i count:  l'era narvàus e intratabil parchè al padràun par al cuntrat ed mézadri l'aveva l'esclusiva dla vàndita dal furmaint, dla canva, dl'ù e dal bisti, e quan a jera al rendicòunt al n'era mai vantaz dal contadein.

Come sàgn dal so cmand l'arzdòur al purtèva dau aneli int'agli uràc' e al s'in caveva òna par derla al fiòl ch'l'ereditèva al cmand;: quand l'arzdòur al murèva, al fiol l'erediteva anch la secònda anela.

L'arzdòura - L'arzdòura invezi la controleva al repert dla cusèina, dla cà in generel par vi dla biancari dla cura di amalè caun agli erb medicinel, e anch al repèrt dl'èra.  La stèva sàimper 'in cà e al masum l'andèva al marchè a Budri a vàndar agli ov o al galéin e sl'andeva a màsa prèma a la a la dmànga. Tanti volt la famàja patriarchèl l'era fata ed dimòndi fiu  caun al sàu spàusi, e spàs a fer da magner aj tuchèva propri al spàusi zàuvni, una stmena proun. Mo l'era sàimper l'arzdàura ch'la deva la raziaun quotidièna par la ragò ed suséza, panzàta, lèrd, ch'la tgnèva int'na sporta.

Al spetaqual piò bel l'era quand la deva da magner al galein e al li ciamèva caun al vers "còchi,, cò-chi"; alàura da tòti al pert agli arivevan ed càursa e al zarchèvan ed parer vi i cuncureint caun di coc' e spintoun. La castreva i galèt par fer i capoun, la controlèva se agli ov agli eran fecondè mitandli càuntr'un raz ed sàul ch'al paseva da una scarvaciè dla fnèstra.

Traduzione

Reggitore (conduttore) Il reggitore era il capo famiglia che curava gli interessi andava al mercato, si metteva d'accordo con gli altri conduttori per i turni della zerla (ossia lo scambio delle opere che pure si praticava fra contadini per molti lavori, come quelli della canapa e della spannocchiatura), distribuiva le mansioni secondo il detto "vedere, prevedere, udire, capire, intendere". Il momento più brutto dell'anno era dopo l'incontro con il padrone per i conti: era nervoso e intrattabile perchè il padrone per il contratto di mezzadria aveva l'esclusiva della vendita del frumento, della canapa, dell'uva e del bestiame, e quando c'era il rendiconto non era mai a  vantaggio  del contadino. Come segno del suo comando il reggitore portava due anelle nelle orecchie e se ne toglieva una per darla al figlio che  ereditava il comando; quando il conduttore moriva, il figlio ereditava anche la seconda anella

Reggitrice (conduttrice) La reggitrice invece controllava il reparto della cucina, della casa in generale per via della biancheria, della cura degli ammalati con le erbe medicinali e anche il reparto dell'aia. Stava sempre in casa e al massimo andava al mercato a Budrio a vendere le uova o le galline, e se andava a messa prima la domenica. Tante volte la famiglia patriarcale era fatta da parecchi figli con le sue spose, e spesso a far da mangiare toccava proprio alle spose giovani, una settimana per una. Ma era sempre la reggitrice che dava la razione quotidiana per il ragù di salsiccia, pancetta, lardo che teneva in un sacchetto.

Lo spettacolo più bello era quando dava da mangiare alle galline e le chiamava con il verso "co-chi co ch"; allora da tutte le parti arrivavano di corsa e cercavano di togliere i concorrenti con degli spintoni. Castrava i galletti per fare i capponi, controllava se le uova erano fecondate mettendole contro un raggio di solo che passava attraverso la finestra.


Al bioic

La stala l'era impurtanta par al lavurir di bû e dal vach int'i camp, par al lat, par l'aldame par al riscaldamaint d'inveren quand la famaja la feva al «tràp», e al biôich l'eveva al càumpit ed bader saul a la stala. Al cureva la pulizi dal bîsti caun la stragia e la bròsca, al li sugheva caun di sách quand al turnevan sudè dai camp, o sl'era piuvò maintr'al lavurevan, agli pasèva la sónza int'la capa par amorbidir i cal dal zò, agli tajèva agli óng' di pi caun al tanaj aposta, d'inveran agli miteva na cuêrta sauvra la schèina s'agli avevan d'ander föra a bovar e al mantneva la pulizi int'la gràpia, intl'aib (abbeveratoio), int'al suichèr e in tot i sit, parché l'igiene l'era in dispensabil par la salut dal bisti. L'era impgnè tót i dè, dal vôlt cumpràisa la dmanga, e da l'èlba al tramàunt.

Il bovaro
La stalla era importante per il lavoro dei buoi e delle vacche nei campi, per il latte, per il concime per il riscaldamento d'inverno quando la famiglia faceva il "trap" e il bovaro aveva il compito di badare solo alla stalla. Curava la pulizia degli animali con la spazzola di ferro e una spazzola con le setole e li asciugava con dei sacchi quando tornavano sudati dai campi, o se era piovuto mentre lavoravano gli passava il grasso nella coppa per ammorbidire i calli del giogo, gli tagliava le unghie dei piedi con le forbici apposta, d'inverno gli metteva una coperta sopra la schiena se dovevano andare fuori a bere e manteneva la pulizia nella mangiatoia, nell'abbeveratoio, nel canaletto e in tutti i posti perchè l'igiene era indispensabile per la salute degli animali. Era impegnato tutti i giorni, delle volte compreso la domenica, dall'alba al tramonto.

Al campagnol

Al campagnol l'era al responsabil ed tot i lavurir di camp, al prém a tachér e l'ultum a smetar, sainza pora dal fràd e dal chèld; i al ciamèvan «quàl ch'al tira al col ai èter», parché l'aveva sàimper la smania ed fer prest, parchè i lavurir i eran dimondi e al tàimp al n'era mai asè. Fra la preparaziàun dal train, la sàmna, al pudèr, l'argôlt, l'aveva da pinsèr anch a difàndar al prodot dal malatî e dai pasarein (e al prepareva i spuràc), mo anch dal rugh, ch'aj dèva la caza insam ai ragazû a forza ed pistút. Al feva anch l'ort, al tgneva indri al smàint par l'an dòp, al cureva i canvi e i fús par l'irrigaziàun e, insàma, al n'aveva mai un'aura dla bôna.

Il campagnolo

Il campagnolo era il responsabile di tutti i lavori dei campi, il primo a iniziare e l'ultimo a smettere, senza paura del freddo e del caldo, lo chiamavano "quello che tira il collo agli altri", perchè aveva sempre la smania di far presto perchè i lavori erano molti e il tempo non era mai abbastanza. Fra la preparazione del terreno, la semina, il potare, il raccolto aveva da pensare anche a difendere i prodotti dalle malattie e dagli uccellini ( preparava i spaventapasseri), ma anche dalle rughe che gli dava la caccia insieme ai bambini a forza di pestarle. Faceva anche l'orto, teneva dietro alle sementi per l'anno dopo, curava i canali e i fossi per l'irrigazione e insomma, non aveva mai un'ora buona.


Al cantinir

La cainteina, interè ed zinquanta zintemiter e esposta ad sáta (a Sud) l'era spàs protéta anch da l'ambra ed quàica pianta, come la vida, cla steva so par al mur esteren. Al cantinir l'era gelàus dla so atrezadura mo anch dal lochèl: an vleva che incióun l'andès in canteina caun dal pan, parchè anch sàul una brisla la pseva arviner na damigiena d'vein baun, opur ch'i purtésan alsi, savȧun, erb aromatich, ch'al psevan arviner al vein caun i udûr. Quand la lóuna l'era bona e an tireva brisa al vàint, al tramudèva o l'imbutiglieva. Mo al period piò impegnativ l'era al tàimp dla vendàmia e poch préma: l'aveva da preparér al sit, i tinaz, i bigónz, busèr al bót o stachèri caun delicatàza al tès (tartaro), controler al calâstar, s'aj manchèva quèch côsa, andèr a la fira di bigónz a San Lázar, indòv l'aveva anch l'ucasiàun ed scambiér un parair o un'esperiáinza caun i colega eccetera. E pò l'arivèva al mumàint ed muster, turcièr, sistemer toti al qualitè ed vein, da cal miòur, destinè a la vandita, al mez vein e al tarzanèl o puntalaun, destinè a la famaja. In particoler al puntèl l'era alzir e bròsch, che anch i ragazû i in psevan bovr a volonté.

Il cantiniere

La cantina interrata di cinquanta centimetri e esposta a Sud era spesso protetta anche dall'ombra di qualche pianta, come la vite, saliva sul muro esterno. Il cantiniere era geloso della sua attrezzatura ma anche del locale: non voleva che nessuno andasse in cantina con il pane, perchè anche solo una briciola poteva rovinare una damigiana di vino buono, oppure che portassero "alsi", sapone, erbe aromatiche, che potevano rovinare il vino con gli odori. Quando la luna era buona e non tirava il vento, travasava o imbottigliava. Ma il periodo più impegnativo era il tempo della vendemmia e poco prima; doveva preparare il posto, i tini, i bigongi, ingrossare le botti o staccare con delicatezza il tartaro , se mancava qualche cosa andare alla fiera dei bigonci a San Lazzaro dove aveva anche l'occasione di scambiare un parere o una esperienza con i collega. poi arrivava il momento di mostare, torchiare sistemare tutte le qualità di vino, dal migliore destinato alla vendita al mezzo vino e al terzo vino, destinato alla famiglia. In particolare il terzo vino era leggero e brusco che anche i ragazzi potevano berne a volontà-

ragazú

Quand in cà a i era di cino an se dscureva d'interes, e spezialmaint quand l'ariveva al padraun, guai i ragazû: o fora o a let. A proposit a m'arcôrd che i ragazû i mandevn a let al 6, e anzi i durmevan int'al stanziôl, una pert dla stala duv a si tgneva la roba pr'al bisti. Tanti volt, invezi ed durmir, i ragazû i stevan a zugher a bréscla, s'i ariuscivan a ruber una quàica candátla. Zerti famaj i fevan durmir i ragazû int'la loza, caun dal fila id let che ed not al «nuni al pasèva da tôt a fèri fer la pipi intl'urineri. A m'arcôrd l'àulum ed casa Marcovigi dóv nuètar ragazû ai zughèvan dàintar. Al tràunc l'era vûd e ai psevan steri fèna in 7.

I ragazzi

quando in casa c'erano dei bambini non si discuteva di interessi e specialmente quanto arrivava il padrone , guai i ragazzi, o fuori o a letto. A proposito mi ricordo che i ragazzi li mandavano a letto alle 6, e anzi dormivano  nel stanziol, una parte della stalla dove si teneva la roba per le bestie. Tante volte, invece di dormire, i ragazzi stavano a giocare a briscola, se riuscivano a rubare una qualche candela . Certe famiglie facevano dormire i bambini nella loggia, con una fila di letti  che di notte le "nonna passava da tutti a fare fare la pipi nel vasino. Mi ricordo l'olmo di casa Marcovigi dove noi ragazzi ci giocavamo dentro. Il tronco era vuoto e ci potevamo stare fino in 7.

Al ragázi antighi

Par completer la descriziàun dla famaja bisagna dir che spàs a jera anch la zièina o ragâza antiga, cioè zitěla. L'aveva dal mansiaun come na zavata ráta squêsi saimpar ed stopabûs e dal volt la vgneva anch maltraté, spezialmáint dal spausi.

Le ragazze antiche

per completare la descrizione della famiglia bisogna dire che spesso c'era anche la zia o ragazza antica, cioè zitella. Aveva delle mansione come una ciabatta rossa quasi sempre come tappabuchi e delle volte veniva anche maltrattata, specialmente dalle spose.

Al garzaun 

Zerti famaj da cuntadein agli avevan al garzàun, ch'l'era qual ch'al fèva i lavurir piò pesant e al vgnéva da famaj ed brazéint. Aj era di ragazû dai 8 ai 11 an ch'i andevan par garzàun saul pr'al magner, sainza pèga, magari par la stasàun estiva. Invezi dai 11-12 an in so spàs i stevan tot l'an: me (parla Gualtiero Bonfiglioli) dal 1938-39 a jó fat al garzàun par 100 scud a l'an, un quintel d'furmáint e un per d'schèrp: d'estè am liveva a mezanot par guarner al bisti e al 2 andeva arer fena al 10.

Il garzone

certe famiglia di contadini avevano il garzone, che era quello che faceva i lavori più pesanti e veniva da famiglia di braccianti. C'erano dei ragazzi dagli 8 agli 11 anni che andavano a fare i garzoni solo per il mangiare, senza paga, magari la stagione estiva. Invece dagli 11-12 anni in su spesso stavano tutto l'anno : io (parla Guartiero Bonfiglioli) dal 1938 -39 ho fatto il garzone per 100 lire all'anno, un quintale di frumento e un paio di scarpe: d'estate mi alzavo a mezzanotte per dar da mangiare alle bestie e alle 2 andavo ad arare fino alle 10.

I brazeint

Què a Granarol I brazéint, come int'agli èter cmóun, i eran quî da pió miseria. Int'al ghetto ed Santa Brigida a in steva dimóndi famaj e par arsparmier la brusàia i s'mitevan d'acord anch a fer al pan a turen. L'evasiàun da tanti misêri e tanti fadigh l'era al tràp, dov a s'zughèva a gufat, a masein o a novzàint (a la màur a s'zughèva piò che èter intl'ustari, par dagli aur, cau dal gran sfilarè d'butèli). I brazèint i fevan na quèch giurneda al tàmp dla canva, di furag', dal mêder o dla vindâmia; opur, quand l'anvèva dimondi, i andevan a Bulagna a scarghèr la naiv dal că, o dai binèri dla ferovi.

I stevan dimondi piz di cuntadein e i sbarchevan al lunèri anch a spighlèr al furmáint, i ga raví, i panucéin. Par scaldères i brusèvan di malghet, di biróc, di sprúch ed canva o dal braguel. I piò furtuné i tulevan da un cuntadein un pez ed tera da lavurer caun un cuntrat a vaus ciamé sal terz» (1 mitevan tota la man d'ôvra e i tgnevan un têrz).

I braccianti

Qui a Granarolo i braccianti, come negli altri comuni, erano quelli da più miseria. Nel ghetto di Santa Brigida ci stavano parecchie famiglie e per risparmiare la legna si mettevano d'accordo anche a fare il pane a turno. L'evasione da tanta misera e tante fatiche era il trap (il trap veniva chiamato , quando dopo cena, si ritrovavano in casa di uno o dell'altro davanti al camino a fare chiacchiere o giocare  si diceva va al trap(ndr nonna Giovanna), dove si giocava a gufetto, a massino o a novecento (a la morra si giocava più che altro nelle osterie, per delle ore, con delle gran file di bottiglie). I braccianti facevano qualche giornata al tempo della canapa, dei foraggi, della mietitura della vendemmia; oppure quando nevicava molto andavano a Bologna a scaricare la neve delle case, o dai binari della ferrovia.

Stavano molto peggio dei contadini e sbarcavano il lunario anche a spigolare il frumento,  le pannocchine. Per scaldarsi bruciavano i residui del mais, dei carretti, il fusto della canapa o delle cortecce. I più fortunati prendevano da un contadino un pezzo di terra da lavorare con un contratto a voce chiamato  "sal terz" (ci mettevano tutta la mano d'opera e tenevano un terzo)

giovedì 26 gennaio 2023

Granarolo Emilia parte 2


 Zirudella sul campanaro di Granarolo (dialetto locale)


Zirudella la mi zaint
as dis poc pensir e cor cuntaint
acsé av voi cunter
cussa i fen i campaner
e a val degh in dou parol
ch'ièn propri qui et Granarol.
- Al suzes ai quatar et febrer
cal fat què un po originel
in giurneta ed mercoledè
che i sunèn dou volt mezdé.
Quast al capita, ansò sai coi
quand a s'a chi trest arloi
che on s'abetua a deri di scandai
e l'aura esata on l'à sa mai.
- Par quast lour i s'eran regolè col vapurein
però si avessan guardè i mi cinein
cl'era da poc passé ongg'our
is sr'en acort d'incossa evitand l'erour
acse v'dand al treno i g'messan ed scampanzer
e al dogg d'al dè is messan a suner.
Mè a capè sobit in dal mumaint 
(a fevan al fos dal piantamaint)
e anch Gaitan al vès tott d'un fiè 
"ah! par zio, quast al n'è mezdé "
"mo t'an seint chi fan dòn, dòn
quindi la srà una comunion".
- dop però i turnèn a scampanzer
e Gaitan: " nò i sen sbagliè i campaner
parchè aveva di dobbi anca mè 
che al foss bèla arive mezde;
e que av dirò che a son passè da Castnesv
perciò a cgnoss i quaion a nes.
Infati da lè a un pot a sinten al canòn
qual sè cl'era mezdè propri da bon
e i campaner come on c'va alla colta 
i s'attachèn al campen un'etra volta.
- Mè an'i voi mega der tort anca a lour 
parché la coulpa l'e ste totta dal vapour 
che c'al de le al s'era mess al gamb in spàla
e l'andeva fort com dal stiop una bàla 
al pareva cl'aves magnè dal leòn 
invezi i fevan fugh con al carbòn.
L'è dimondi mei quanti drovan i stecc con al treno c'al s'incaglia 
contar ai radecc e cal fat che lè agl'à sanz étar ingassè parchè dou volt mezdé in l'avevan mai sunè.
- Però as capess che ander a rai l'era giunte un tran tran
come qual et paser asvein a l'ass dal pan
parchè oltre a cal sbali appana cunté
le piz quant in sonan brisa l'aimari dal dè.
Acsè quand un povar pisuneint 
l'a d'ander a lavurer par taimps 
al sta in urcia e al s'liva so in camisa 
mo l'aimari on la seint brisa e 
al smit al bregh tot instizè 
us d'un can quant l'é arabè 
- e po' al cmainza a biastmer 
"azzidaint a te e ai campaner
a causa ed lour a tein fer terd
e quant a son in l'ora ium tennen un quert.
Quast an la scap gnanc sai foss nostar Sgnour 
parchè a s'é bela livè al soul 
e anch par stavolta l'è andé acsé 
ma un'etra volta av prumett me 
che a un liv a lusour ed strela"
e que ai fines la zirudella.



mercoledì 25 gennaio 2023

Granarolo dell'Emilia


 Sfogliando una vecchia agenda ereditata dai miei suoceri, "Al liber ed quall ch'pega l'oli", ho trovato molte cose interessanti che ho deciso di riportare qui, perchè mi dispiace che vadano perse.

Chi partendo da Bologna lascia alle spalle Porta Zamboni e si inoltra verso nord, percorrendo Via San Donato, a undici chilometri dalla città, là dove la pianura si allarga all'infinito, trova Granarolo dell'Emilia. Certo non ci sono più le siepi di biancospino che delimitavano le singole unità poderali e offrivano a primavera uno spettacolo incantevole per la fioritura e l'intenso profumo, né le ampie distese di grano da cui Granarolo trasse il nome, o le verdi macchie di canapa, un tempo assai coltivata. Oggi la terra è riservata a una coltura intensiva. 

Granarolo è sede comunale da poco più di un secolo. Fino al 1876, la sede comunale fu Viadagola, ora la frazione più più piccola di Granarolo, ma ricca di storia e di insigni monumenti. Qualcuno vuole che da un amore di Re Enzo con una bella di Viadagola, ricordata anche dal Pascoli, nascesse nel 1252 il capostipite della famiglia Bentivoglio che dominò Bologna. Altre frazioni di Granarolo sono: Quarto, Cadriano, Lovoleto. Le chiese delle frazioni e del capoluogo conservano opera d'arte di grande valore come un coro in noce del seicento, un quadro del Guercino e due della Sirani a Granarolo. Un Guercino e un quadro del Francia a Cadriano con uno splendido mobilio in radica del seicento, nella sagrestia. A Quarto quadri del Carlvart, del Faccini e Tiarini.

Tipiche le antiche case coloniche, specie a Viadagola, risalenti al cinque-seicento, la villa già dei Pallavicini ed ora dei Sapori, Villa Mignani a Cadriano che fu già di Marco Minghetti. Un "Ospitale" del 1454 a Lovoleto. A Granarolo, la casa che ospitò l'esploratore africano Pellegrino Matteucci. 

Il nome di Granarolo è ricordato per la prima volta, negli atti ufficiali, nel 1129 quando negli atti della Sapienza bolognese fu scritto fra il numero dei notai un tale Ugolino di Giacobino di Domenico da Granarolo. L'amore per la libertà e l'indipendenza dei granarolesi non risale solo alla resistenza contro la dittatura fascista, ma è di antica data. Infatti nel 1362 quando i Visconti di Milano avevano steso la loro potenza fin sopra Bologna e i soldati viscontei si erano accampati presso la chiesa di Granarolo, i granarolesi si unirono ai bolognesi e sconfissero i soldati viscontei per cui molti granarolesi entrarono a far parte degli uomini che costituivano il consiglio dei 600 di Bologna.


Chiesa e municipio


Nel 1405 il distretto di Granarolo si trova in potere del conte Alberigo di Barbiano il quale, non rispettando i patti di una pace conclusa, ben presto viene estromesso e Granarolo è nuovamente libero.

Che popolazione poteva avere Granarolo a quei tempi? Nel 1573 l'animato della parrocchia di Granarolo, come risulta dai dati della visita pastorale di Mons. Ascanio Marchesini è di 455 e nel 1846 di 950, oggi passa i 3.000 (anno 1986 ndr).

Curiosità etimololiche. Se è chiaro  che il nome di Granarolo deriva da grano (i maligni dicono da "grane"). Quarto perchè sorto al quarto miglio da Bologna e Cadriano da una famiglia romana "Gens Caturia" (e che vi fossero ricche famiglie romane in loco, lo confermano le molte monete romane scoperte durante scavi nel 1822 e 1845) non è chiara l'etimologia di Lovoleto e Viadagola. 

Dice la storiella: alcuni mercanti avevano un asino da vendere e incominciarono le trattative. Se lo volete il prezzo è tanto...lo volete...lo volete e, cammin facendo, ormai stanchi della lunga trattativa, uno esclamò; "via, dagol!" onde Lovoleto ove iniziò la trattativa e Viadagola ove fu conclusa. Direbbe il Cellini: "Non so perché i dotti si affatichino tanto su l'etimologia di certi nomi che sono di così facile interpretazione":

Oggi Granarolo è conosciuto per il latte e ancor più per la squadra di basket "la Granarolo Felsinea" che ha vinto il campionato nel 1984. Granarolo è un paese prevalentemente industriale anche se conserva una parte di agricoltura intensiva. Se l'insediamento industriale avesse seguito il ritmo degli anni settanta, oggi, di grano, rimarrebbe quello delle spighe ornano lo stemma del comune.


Olmo gigante proprietà Marcovigi

Brighetti Carlo -Il contadino poeta di Granarolo Emilia

Carlo Brighetti un contadino nato ad Argelato nel 1874, si trasferì con la famiglia in un podere chiamato "La grolla" dietro il municipio di Granarolo Emilia, dove ora sorgono dei palazzi. Fu qui che il giovane sulla ventina riuscì ad ottenere la qualifica di "Massér", il massimo riconoscimento a cui poteva aspirare un rimatore come lui che si dilettava a scrivere Zirudelle su fatti di cronaca spicciola e paesana. Quel traguardo ambizioso venne conquistato dal giovane con l'impegno, la creatività, l'estro, le sfide in campo aperto con i Franchini (famiglia di cui faceva parte mia suocera, con mio grande onore), una prestigiosa dinastia di rimatori la fama dei quali, andava ben oltre i confini di Granarolo. Lui senza timori irreverenziali amava misurarsi con rivali davanti al pubblico, il giudice più competente e più severo, che scoprì in Brighetti oltre all'innato talento il grande cuore di un uomo onesto, amante della pace, della libertà e della giustizia. Tutti sentimenti che riusciva a trasmettere negli spettacoli come "il rogo della vecchia" e "la mascherata", scritti di suo pugno, che andava a ra84ppresentare nelle piazze dei paesi campagnoli, mentre sapeva mettere in burla fatterelli gustosi come quello dei campanari di Granarolo con la freschezza creativa della sua vena ironica. 
Bologna, giugno 1985                                                                      Armide Broccoli

                                                                      Scuole Comunali










martedì 24 maggio 2022

Congratulazioni Sua Eminenza Reverendissima!


Oggi Papa Francesco ha nominato il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
"Comunione e missione sono le parole che sento nel cuore. Cercherò di fare del mio meglio, restiamo uniti nella sinodalità". E' quanto ha detto il card. Zuppi secondo quando riporta il Sir.Maria Zuppi a Presidente della CEI è davvero una scelta rivoluzionaria, l’ennesima di Papa Francesco.

Prete di strada - come è rimasto sempre, anche una volta diventato Cardinale - assiduo promotore della Comunità di Sant’Egidio, ha dedicato la sua intera vita ai bambini svantaggiati, ai migranti, ai senza fissa dimora, ai disabili, ai tossicodipendenti, ai carcerati, agli ultimi, agli emarginati.
È stato figura di spicco e mediatore nel processo che, nel 1992, ha portato alla pace in Mozambico, che pose fine a oltre 15 anni di guerra civile.
È stato simbolo della cooperazione in Africa.
Nel 2015, quando divenne arcivescovo di Bologna, scelse di andare a vivere in un dormitorio per preti in pensione, in una umile stanza con un letto, un comò e uno scrittoio uguale a quella di tutti gli altri.
Tre anni fa, nel pieno dell’ipnosi sovranista, se ne uscì con parole manifesto sull’immigrazione e sull’accoglienza:
“L'accoglienza non è un incubo da evitare, è il modo in cui la società cresce, ringiovanisce, matura. Siamo di fronte al rischio di non commuoversi più per la condizione di chi non ha nulla o è in pericolo".
È questa figura qui, questo prete progressista, quest’uomo straordinario, che Bergoglio ha appena scelto per guidare i vescovi italiani. E, a prescindere dalla fede (o meno) di ognuno, è una grande notizia per questo Paese. 


Ho avuto l'onore e il piacere di conoscerlo personalmente non più tardi di una settimana fa, durante la visita Pastorale tenutasi nel nostro paese. Una persona di una intelligenza eccelsa pari alla sua umiltà, disponibile con tutti, ma davvero tutti, riesce a metterti a tuo agio come se fosse una chiacchierata tra vecchi amici. Sono uscita da questa esperienza entusiasta e arricchita come non avrei mai creduto. 
Quattro giorni trascorsi insieme, piacevolissimi, dal mattino presto, sempre in anticipo agli appuntamenti, fino a sera tardi, con una energia inesauribile.
Riporto qualche foto della visita. 

Lodi mattutine a Lovoleto con l'immancabile colazione insieme



Vespri a Quarto, dove si è trasformato in "cameriere "


Rosario in piazza a Cadriano


visita al centro anziani


la biciclettata con i bambini


il saluto domenica





Congratulazioni "Don Matteo", i migliori auguri di buon proseguimento e infinite grazie per quanto fa, ha fatto e sicuramente farà! Pregheremo per Lei.