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domenica 29 gennaio 2023


 CASTEL MAGGIORE 

La comunità di Castel Maggiore da sempre è stata considerata molto operosa: ne è testimonianza il fatto che nell'emblema del gonfalone comunale sono raffigurate tre api, quale segno, appunto, di operosità della sua popolazione. Ma è una comunità molto attenta anche ai problemi sociali ed economici ed ha mantenuto questa sensibilità nonostante il raddoppio della popolazione in questi ultimi 30 anni (da 6.000 a 13.000 ab.) e le conseguenti profonde trasformazioni nella economia e nel tessuto sociale.

Quali invece gli effetti e le cause di questa trasformazione? L'effetto è stato una continua espansione dei residenti nei centri abitati, capoluogo in particolare, nella frazione di Trebbo di Reno, nel nuovo quartiere 1° Maggio vicino a Corticella, il progressivo abbandono delle case rurali (66 sono quelle disabitate) e l'insediamento di più di 1000 aziende produttive e commerciali, medie e piccole, per gran parte a carattere artigianale.

Le cause sono da un lato di carattere generale, dovute al forte sviluppo industriale degli anni 60-70, dall'altro la crisi agricola generale con una particolarità locale dovuta a una forte presenza di una conduzione agricola di tipo familiare con contratto a mezzadria; erano 200 famiglie con più di 1000 addetti, ora quasi completamente azzerate.

Questo tipo di conduzione entrò in crisi, in parte, perché il lavoro, oltretutto pesante, era poco remunerato, ma anche per una normativa contrattuale di tipo feudale quale era la mezzadria e infine per l'evolversi dei nuclei famigliari nei quali le forze giovanili non erano più disponibili ad accettare quelle condizioni economiche e di lavoro, e si ribellavano pure alla gestione familiare di tipo patriarcale dove, nella maggioranza dei casi, il capo famiglia amministrava e decideva tenendo all'oscuro della realtà economica e finanziaria, il resto della famiglia. In molti casi, famiglie si sono sciolte abbandonando i poderi con veri e propri traumi, per scontri durissimi fra vecchie e nuove generazioni.

Questo comune nella storia dell'ultimo secolo annovera anche un'altra particolarità, e cioè aon ha mai avuto una economia totalmente agricola, ma ha sempre avuto un nucleo operaio notevole, costituito dalla presenza della Fabbrica «Barbieri» con più di un secolo di vita, e della Riseria «Cantelli ubicate ambedue al «Castello»> Borgata Storica, attraversata dal Canale Navile, attualmente in fase di avanzata ristrutturazione con un tipo di restauro conservativo.

Fin dalla fine del secolo scorso questo Centro abitato è sempre stato un luogo di incontri e di confronto dei cittadini sui problemi sociali, politici ed economici e di iniziative di solidarietà. Attorno al 1880 fu costituita in quella Borgata (che ospitava in quel periodo quasi tutte le Istituzioni Pubbliche del Comune) una Società di Mutuo Soccorso; era un tipo di iniziativa solidaristica per aiutare i più diseredati attingendo da un fondo costituito da offerte dei soci, compreso anche qualche benestante dell'epoca. La bandiera di quella Associazione è conservata nella Sala di Giunta del Municipio.

La Barbieri in quei tempi era prevalentemente una fonderia con una produzione altamente qualificata, in seguito si specializzò in grandi impianti frigoriferi, produzione che continua attualmente sotto il nome di «Tecnofrigo».

La Cantelli era invece una piccola azienda per la lavorazione del riso che arrivava grezzo dalle risaie della bassa bolognese e con macchine apposite veniva sbucciato e reso commestibile. Il riso arrivava per gran parte da Bentivoglio trasportato con dei barconi lungo il Canale Navile, trainati da cavalli che percorrevano la sponda del fiume; arrivati in prossimità della fabbrica si procedeva alla chiusura del corso d'acqua a valle della barca con apposita paratoia, in modo che il livello dell'acqua si alzava fino a portare la barca stessa al piano di scarico.

Per finire questa breve e sintetica presentazione voglio aggiungere che nel territorio di Castel Maggiore ci sono 8 antiche ville, a suo tempo abitate da altrettanti proprietari terrieri, costruite a cavallo del 16° e 17° secolo. Una di queste, «Villa Salina», circa 10 anni or sono è stata acquistata dalla Regione Emilia Romagna e viene utilizzata per diverse e svariate attività: Convegni, ti di aggiornamento ed anche incontri di rappresentanza. Infine voglio ricordare che da Castel Maggiore ha preso le mosse il museo della Civiltà contadina  (che ha sete attualmente a Villa Smeraldi a Bentivoglio) attraverso un gruppo denominato della  Stadura che iniziò, negli anni 60, la raccolta di cimeli, strumenti, attrezzi e macchine d'epoca che servivano nei tempi antichi per la produzione e le lavorazioni dei prodotti dell'agricoltura . Appositamente conservati , puliti e riparati furono poi trasferit a Villa Smeraldim dopo gli opportuni  accordi con l'Amministrazione Provinciale proprietaria della Villa, i Comuni di Castel Maggiore,di Bentivoglio e il Comune di Bologna


Al non Gaitan, par el fest ed nadel

-Nel ripercorrere con la memoria il tempo a ritroso, una delle cose che ha lasciato piacevoli ricordi legati alla mia infanzia, è anche questa che sto per narrare. Eravamo intorno agli anni che vanno dal 1946/47 fino agli anni 1952/53, la nostra famiglia era allora composta dai nonni paterni più mio padre «quel da dapiò» il più vecchio con mia madre ed io; mio zio «<al biôic» destinato ai lavori della stalla, con moglie e due figli, più un operaio a tempo indeterminato, «al minéstar» che viveva con la nostra famiglia e che ogni anno percepiva un salario preventivamente contrattato.

Il nonno, Gaitan, fra le altre mansioni, aveva quella di accudire alla cottura del pane, operazione questa che si verificava una volta la settimana di media. Non sto qui a raccontare la preparazione dell'impasto e della confezione del pane, ma vorrei raccontare come si procedeva in prossimità delle feste di Natale.

Di solito il 23 dicembre, calcolato opportunamente le quantità precedenti, era necessario accendere il forno per il pane e, finalmente, pensavamo noi bambini, per i dolci, non che durante il resto dell'anno non si mangiassero dolci, ma proprio perchè il Natale, consentiva maggiori varietà e più abbondanti quantità.

Averta la boca dal fouran, al s'rimpèva con di malghèr (steli di granoturco) di scarangion (steli di girasole) dou sfurchè ad spen zarven, taie in t'autón intla zè dri la strè, a si strichèva sòta una felda ad paia seca, po a si deva fug, prèma cai brusés incosa, a si zunteva du o tri fasét, parchè stavolta al fouran l'aveva da esar cheld ben.

Finito il fuoco, a quando il forno a giudizio del nonno era abbastanza caldo, als vudeva, dala zendar e dal bres piò lenti, as lasèva cascher la resa (la polvere) e po as laveva al pian ad cutura con un straz mói, lighè adcô da una perdga, al s'laseva srè suquant minut, e pó a s'infurneva al pan, live (lievitato) inváta a la rastlîra adnanz al fug in ca.

Mentre si cuoceva il pane, in casa, la mamma e la zia, sotto l'occhio sempre vigile della nonna, preparavano i dolci che andavano naturalmente cotti dopo aver cotto il pane, e quindi ad una temperatura più bassa.

Ad solit as fèva trei o quater beli brazadel, trei o quater grustè con al savour, zirca un chilo ad panon (panoni, non panettoni) una panira ad raviol e suquanti pasten (biscotti).

-Ades mè a c'fag al butîr - Diceva la nonna mettendo un paio di pani di burro, fatto in casa, in un tegame sulla cucina economica sempre calda ma non tanto da friggere il burro. Facendo questa operazione raccomandava alle nuore di usare poco zucchero, perché molto farebbe male ai denti, mentre in realtà era per risparmiare perchè dal canto loro le due «pasticcere» più giovani, già senza tale consiglio avevano le dosi non eccessive.

L'impasto era lo stesso per tutto tranne che per i panoni; as lavureva intla spartura e inveta al tulir, par nuetar cino l'ira festa granda, tanta grazia ad Dio, anc se l'ira dimóndi, l'aveva da durer da Nadel a Sant'Antoni, agli ultmi raviôl bagnè als magnevan la Veglia ad Sant'Antoni infati, e al premi, dou pron, con dou past la Vaglia ad Nadel, prema ad magner i maron d'intouran al fug.

sabato 28 gennaio 2023

Argelato

 



Appunti di storia

Argelato fu feudo fortificato di Matilde di Canossa. L'autorevole presenza di beni della con- tessa è comprovata da almeno due documenti. Con il primo, datato 9 luglio 1105, Matilde fa dono al capitolo della cattedrale di Bologna della Chiesa di San Michele di Argelata unitamente ad una parte rilevante della Massa di Torano, ora corrispondente a San Giorgio di Piano. Con il secondo, risalente al 1108, rinnova una concessione enfiteutica di un terreno ad uso agricolo posto nel borgo di Argelata a favore di Natalia e Giovanni Marzola (o, secondo altri, Mazzola). La località fu soggetta a frequenti e notevoli inondazioni del vicino fiume Reno (si rammentano, tra le altre, quelle del 1220 e del 1269), nonchè ad altrettanto frequenti incursioni e devastazioni da parte di soldatesche. Scrive l'abate Serafino Calindri che il territorio e castello di Argelata soggiacquero al saccheggio e all'incendio «a cui dovetter soggiacere tanti altri Castelli del territorio dopo la famosa rotta di Zappolino nel 1325». Nuovi danni ebbe ancora a patire, trent'anni più tardi, dall'esercito di Matteo Visconti. Tali devastazioni portarono ad una progressiva e inevitabile decadenza della località, tanto che il Calindri nel 1785 annotava: «dell'antico popolato suo Castello, o Terra, già feudo circa il mille della celebre Contessa Matilde, tante volte contrastato tra l'Impero e la Chiesa, nulla vi rimane di più che una elevata e quadrilunga motta di terra, o dicasi promontorio o piccol monticello, e l'orma di una larga fossa a poca distanza dalla medesima».

La chiesa parrocchiale di Argelato, dedicata a San Michele Arcangelo, risulta già nominata nella sopra richiamata donazione del 1105 e venne pressochè completamente riedificata negli anni 1462 e 1753. Il campanile fu edificato nel 1812 e successivamente restaurato nel 1839. La costituzione del Comune di Argelato risale al 1826. Sono da annoverarsi, infine, tra le principali istituzioni post-unitarie, la Società Operaia di Mutuo Soccorso, organizzatasi nel 1882 e la Cassa Rurale, fondata nel 1906. Con decreto prefettizio datato 31 marzo 1891 venne istituita ad Argelato un'annuale fiera di bestiami in concomitanza con la festa patronale di San Miche- le, cadente il 29 settembre. Tale fiera costituì per decenni un preciso punto di riferimento per l'economia locale.


Barcaròl, psiv'gnir a pasèrum?" ovverola storia dell'ultimo passatore del Reno 
Gasperini Attilio, classe 1908, è stato l'ultimo passatore del Reno della zona di Argelato Castello d'Argile. 1 Gasperini da generazioni e generazioni erano i traghettatori al Passo del Savignano (detto anche della Frattina), che collegava i territori sud-occidentali di Argelato e Argile con quelli di Padulle e Sala Bolognese.
Una zona assai popolata, un'economia legata strettamente all'agricoltura e al piccolo artigianato facevano del Passo del Savignano uno dei più importanti punti d'incontro delle genti qua e di là dal Reno almeno fino alla fine del secolo scorso; poi con la costruzione del ponte di Bagno (1880) e di quello di Buonconvento (1937) e l'avvento della motorizzazione anche l'antico mestiere del passatore è scomparso. Mestiere di famiglia dunque, ma anche se uno solo della famiglia era preposto a traghettare  tutti alla bisogna prestavano tale servizio, e Attilio Gasperini già a otto anni era stato messo sotto a tirare la barca. II Reno allora era molto più largo e al Savignano aveva uno specchio d'acqua di 60-70 metri; la barca veniva impiegata a traghettare dall'autunno alla primavera inoltrata mentre d'estate, dato il basso livello dell'acqua veniva montata una passerella in legno. Singolare  era il sistema di trasbordo da una sponda all'altra: una fune di acciaio lunga 150 metri attraversava il fiume ancorata da una parte a un grosso albero e dall'altra a un mulinello, tramite il quale la si teneva sempre a circa un metro sopra il livello d'acqua; la barca, di legno di quercia (en lunga sei metri e larga tre, alta 90 cm., con un pescaggio di soli 20 cm.), aveva un palo nel mezzo del quale vi erano due rulli ruotanti su di un perno attraverso cui scorreva la detta fune di acciaio che così teneva in guida la barca. Facendo presa con le mani sulla fune e tirando, il passator spostava la barca trasferendola dall'una all'altra sponda. Il servizio era dall'alba al tramonto veniva sospeso di notte; era un'attività utile a soli pedoni e biciclette e veniva retribuita con pocho soldi a persona (10 o 15 centesimi).
La domenica, le feste e i giorni di mercato erano quelli di maggiore traffico, ma certo che con questo mestiere non si campava e i Gasperini erano anche falegnami; riparavano carri e birocci e attrezzi agricoli, costruivano madie, tavole e armadi nella modesta bottega della casa del passatore.
I nuovi ponti sul Reno, la guerra, i clienti sempre più radi fecero sì che nel 1940 il servizi fosse sospeso: oggi nella golena al Savignano restano la vecchia casa dei Gasperini, una piccola cappella dedicata alla Madonna, e alcuni dei pali in rovere della passerella e delle rampe di accesso; il Reno in questo punto è molto più profondo e più stretto di una volta e una fitta vegetazione di alberi e arbusti impedisce addirittura di avvicinarsi a quello che fu uno dei più importanti traghetti sul Reno dei secoli passati, il passo del Savignano.

                            il traghetto al passo del Savignano, nei pressi di Argelato negli anni '30


Preghiere

A lèt a lèt a vói andèr, tótt i sânt a vói ciamèr, trị da cô e tri da pi, tótt i sânt i én mî fradî; la Madona l'è mî mèder, San Jusèf l'é mî pèder, San Lurènz l'é mî parènt, a pòs durmir sicurament. 

A letto a letto voglio andare, tutti i santi voglio chiamare tre da capo e tre da piedi, tutti i santi sono miei fratelli; la Madonna è mia madre, San Giuseppe è mio padre, San Lorenzo è mio parente, posso dormire sicuro.

Sant'Antòni dal campanén, s'an gn'é pân e s'an gn'é vén, s'an gn'é lègna in dal granèr, Sant'Antòni, cm'òja da fèr?

Sant'Antonio dal campanello, se non c'è pane e non c'è vino, se non c'è legna nel granaio; Sant'Antonio come devo fare?

Strofette di questua

Av sèn gnó a dèr al bòn cấp dân, ch'a campéssi zènt ân, zènt ân e un dé, la bóna màn la um véin a mê.

Son venuto a darvi il buon capo d'anno, che compiste cento anni, cento anno e un giorno, la fortuna venga a me.

'Zdoura, 'zdurátta, guardè in dla cassatta ch'ai é un pèz ed panzàtta, s'a num la darî, al gât av la purtarà vî.

Zdoura, zdouretta, guardate nella cassetta che c'è un pezzo di pancetta, se non me la darai il gatto ve la p

'Zdoura, a sèn par cranvèl, brasûla o fritèl, un quèl a vlen magnèr. Guardê in dla spaltûra s'ai è un pèz ed brasûla, guardê in dal casson s'ai è un pèz ed panon, guardê d'dòp a l'óss s'ai é un pèz ed parsótt, guardê in dla cassatta s'ai è un pèz ed panzàtta, anch s'l'à al peil am n'importa, basta ch'la stâga in dla mi sporta.

Zdoura, siamo per carnevale, fritelle, qualcosa vogliamo mangiare. Guardate nella spaltura se c'è un pezzo di brasula, guardate nel cassone se c'è un pezzo di panone, guardate dietro all'uscio se c'è un pezzo di prosciutto guardate nella cassetta se c'è un pezzo di pancetta anche se ha il pelo non importa, basta che stia nella mia sporta.

(Le prime due zirudelle avevano spesso lo scopo di vivacizzare gli incontri invernali nelle stalle «a trabb», le altre venivano recitate durante i matrimoni «i spusalézzi»).

 Al zirudèl d'la tradizion

Zirudèla stê a 'scultèr che un bèl chès av voi cuntèr: l'ètra sîra andand a trabb in d'la stâla d'Michelatt a' îra 'na dona fté da òmen ch'la pareva un galantomen, còn 'na zigaratta in bocca, guai a chi la tòcca. Al la tuché al fiôl d'Baravèla tich-u-dài la zirudèla.

Zuridèla d’cô di cópp di quaión ai n'é da par tótt ai n'é anch in mèz a l'èra toch e dài la zirudèla.

Zirudèla i mî parént, da magnèr an gn'é pió gnînt, ai n'é di drétt, ai n'é di gûb, a fèn un éviva ai spûs!

Zirudèla i mî aprént, da magnèr an gn'é pió gnînt, an gn'é gnanch 'na fatta d'murtadela, tich-u-dài la zirudèla.

Filastrocche infantili


Mâma, papà,
cumprêm un s'ciuptén d'ander a la câzia
a' mazzer i limalén,
i limalén di Frânza, cich e ciách få al tamburén!
cus'èt in dla tô pânza? Ai ò di fasulén:
Cilubén paséva al fiómm, la só mama l'i féva lómm,
 la lomm la s'e 'smurze, cilubén al s'é 'cupè.

Sgnour Nicôla, a voi dla côla,
ed cla côla ch'la s'incôla
S'la n'é côla
ch'la s'incôla,
sgnour Nicôla
an tói pió côlaqué da vó.

Seiga butèiga
Dilen (o Zanén) con la Dileida, un butiglién da l'òli
pr'ander in purgatori, un butiglién ad vén
da dèr ai sô fradlén (opp.: da der al piò cineni)

Pîta, pitèlaù
color sei fén,
la bela pulinèla sô par la schèla,
color sei bèla, par San Martén, schèla scalón, panna d'pavòn, acqua del mare, re re, figlio d'un re, ti tocca proprio a...te!
belle città.
metti dentro questo pè:

Riteniamo utile riportare alcune brevi osservazioni sugli ultimi due testi pubblicati. Sega buteiga» era una filastrocca che accompagnava un gioco di abilità infantile che si effettuan mani e una cordicella. Quest'ultima, dopo alcuni «passaggi» da un dito all'altro, dava l'imp ne del movimento di una vecchia sega da boscaiolo. «Pîta pitèla» (o «Pessa piasaelas) citata durante un gioco che cosi viene descritto da due studiosi di folclore: «I bambini d fila, si mettono a sedere con le gambe stese ed a piè pari, mentre uno di essi, il capo giocp in piedi, e recita la filastrocca, toccando, ad ogni fin di verso, un piede dei suoi compagni i  quali debbono subito ritirarlo (O. Trebbi-G. Ungarelli, Costumanze e tradizioni del popolo bolognese, Bologna 1932, p. 224).







Un quâich pruvêrbi dla campagna

Quand al temp al fà la lèna, a piov dènter dla stmèna (Quando il tempo fa la «lana», piove entro la settimana).

Novel souvra la breina, aqua o nèiv cl'ètra matèina (Nuvole sopra la brina, acqua o neve la mattina successiva).

Temp lús, aqua prodûs (Tempo luminoso, acqua produce). 

Elba rossa, o ch'la péssa o ch'la sóppia (Alba rossa, o piove o tira vento). 

Quand ai tira al muntàn, o ch'al piov inců o ch'al piov admàn (Quando soffia il vento montano o piove oggi o piove domani).

Par Santa Crous, furment spigous (Per Santa Croce «3 maggio», frumento con la spiga). 

La louna sitimbréina, sèt lòun s'inchéina (Alla luna settembrina sette lune s'inchinano: la situazione meteorologica non subirà cambiamenti per sette successivi pleniluni). 

Par San Lócca, chi n'à sumnè bóffa (Per San Luca » 18 ottobre», chi non ha ancora seminato deve «sbuffare» ).

Par Santa Catiréina, la guâza la dvènta bréina (Per Santa Caterina «25 novembre», la rugiada si trasforma in brina).

Par Santa Catiréina, o ch'al nèiva o ch'al bréina o ch'ai bât la paciaréina brina o che batte la pioggerellina)

(Per Santa Caterina, o che nevica o che c'è la brina  

Da Santa Catiréina a Nadèl, un mèis uguel (Da Santa Caterina a Natale, un mese uguale). 

Santa Bibiena, quaranta dé e 'na stmèna (Santa Bibbiana «2 dicembre», quaranta giorni e una settimana: l'andamento mete quel giorno si ripeterà per quaranta giorni e una settimana).

Bel Nadel, rustézz a Pasqua (Bel tempo a Natale, fuoco acceso a Pasqua).