Nepoti, assai emozionato, diceva al padre: - Guarda qui ci impiccano; ci sono già le corde! - erano le piante. Alcuni di noi cercavano di spiegare e tentavano di calmarlo; ma ormai in tutti era la sensazione chiara che ci avrebbero ammazzati: basti pensare alla sosta presso il cimitero di S. Giacomo, alle parole del tedesco nella cella di S.Giovanni, alla fermata di Via Agucchi, strada che porta al poligono di tiro e credo si capirà quale poteva essere il nostro stato d'animo.
Dopo un certo tempo, un po' lungo, i tedeschi tornarono a parlare e si ripartì. Ci portarono in una villetta e fummo rinchiusi a chiave in un locale dove rimanemmo l'intera notte distesi sulla paglia.
Prima di mattina bussai alla porta e chiesi di andare al gabinetto; aprirono e mi accompagnò fuori un S.S.; per tutto il tempo dell'operazione mi controllò tenendo la canna del fucile davanti la mia faccia.
Fatto giorno, portarono da mangiare dentro una brocca e ci diedero dei cucchiai: era brodaglia, ma con pezzi di carne; dovevamo mangiare a turno e fu una tribolazione, perchè la brocca ha il collo sottile e lungo e i cucchiai venivano fuori vuoti; alla meglio mangiammo mentre intorno era un gran movimento di soldati.
Per cinque o sei anni, dopo la fine della guerra, ho girato spesso sulle nostre colline per trovare quella villa, non l'ho identificata con precisione, sono però convinto sia proprio quella casa di Sabbiuno dove rinchiusero i partigiani che poi fucilarono.
Passata la notte, rimanemmo in quel locale l'intera successiva giornata; verso sera ci portarono a Bologna, dietro i Giardini Margherita ad un comando delle S.S.. Fummo chiusi in uno scantinato basso e buio ed uno alla volta salimmo all'interrogatorio.
Fui il quinto e prima di me andò mio padre; venne giù abbattuto e cercava di farmi coraggio; vidi bene che l'avevano picchiato.
Salito al piano superiore, entrai in un ufficio assai spazioso; c'era un tedesco, S.S. di grado elevato e cominciò a dire: - Tu partigiano - e lo ripeteva urlando sempre più forte. Io rispondevo: - No, non sono partigiano. - Insistevo a dire "no" come avevo già fatto la prima volta a S. Giovann in Persiceto. Lui "si" e io "no", il fatto è cominciò a darmi degli schiaffi che mi facevano girare in tondo. Il caso volle che entrasse un altro ufficiale sempre S.S. ma italiano e disse: - Cosa c'è, cosa c'è?
- Lui dice che io sono partigiano, io non lo sono; vuole sapere se sono della Sap o della Gap e io non so cosa siano.
In questi interrogatori ed anche nei successivi, godevo di un certo vantaggio: avevo solo diciassette anni e fisicamente ero un ragazzetto, potevo sostenere di non sapere nulla.
Fecero un verbale e tornai giù.
Gli altri furono trattati assai peggio di me. Finiti gli interrogatori, ci portarono a S.Giovanni in Monte. In ufficio scrissero le nostre generalità e segnarono quanto avevamo con noi; presero tutto e ci rinchiusero nella "sala transito" sotto il piano terreno. Qui non fecero mai interrogatori approfonditi, diciamo capillari; dovevamo però subire quelle prove che chiamavano "le dimostrazioni".
Quando qualcuno, non riuscendo a sopportare le torture, si era lasciato sfuggire anche pochissime parole, i tedeschi non gli davano tregua: lo tenevano sempre sotto torchio per avere tutte le notizie possibili e identificare altri membri della Resistenza o del Movimento. Tutti i detenuti venifano fatti passare davanti il locale, stretto e lungo, in fondo al quale e al buio perchè non potesse essere riconosciuto da noi, c'era l'uomo che aveva parlato. Passamo uno alla volta e al centro ci facevano fermare girati verso la luce; quello diceva o si oppure no. Venivamo poi spinti avanti ed appena oltre la porta, c'era un maresciallo delle S.S.un tedesco grande e grosso come un uscio e a me come agli altri del mio gruppo, chiedeva: - Sei della Sap o della Gap?
Io rispondevo: - Non sono niente - E lui giù degli sberloni che mi facevano sbattere la testa contro un armadio che era lì di fianco.
Queste erano "le dimostrazioni" ed avvenivano una o due volte al giorno. In una di queste prove passammo davanti a Ugo Lambertini, famoso traditore responsabile di centinaia di arresti con conseguenti fucilazioni dei partigiani anzolesi: costui fece notare che noi avevamo indosso le maglie di cotone distribuite dai partigiani alle formazioni armate ed alla popolazione.
Le domande furono pressanti e violente: - Dove avete preso quelle maglie? -; in noi aumentò la tensione e la paura. Io risposi che non lo sapevo, mi era stata data da mia madre e non avevo chiesto da dove venisse, come facevo sempre quando mi cambiavo. Carlo rispose che gli era stata data, come altri cittadini, da persone che non erano del luogo ed essendo regalata, nessuno la rifiutò.
Ce la cavammo con qualche sberlone in più.
Nella "sala transito" ervamo all'inizio in una cinquantina; alle prime ore ci svegliavano e i più giovani ed allegri dicevano: - Oggi caffèlatte con la mitraglia! - ; passavano pochi minuti e venivano a chiamare Tizio o Caio; lo portavana all'interrogatorio. Ritornava sul mezzogiorno e le più volte non stava in piedi e sanguinava da tutte le parti. Dalla soglia di entrata al pavimento c'erano tre scalinie qui crollava ruzzolando; noi lo soccorrevamo mettendolo sul giaciglio; facevamo del nostro meglio per curate tutti i torturati, ma non avevamo nulla.
Diminuimmo in fretta di numero; alcuni non tornarono dagli interrogatori, altri furono trasferiti e mandati poi al supplizio di Sabbiuno. Questa era la vita tragica a S. Giovanni in Monte; ogni giorno, ogni momento si viveva nel terrore dell'ultimo initerrogatorio, della tortura pesante, più temuta della stessa morte.
Quasi tutti non arrivammo all'ultimo interrogatorio; probabilmente su noi c'erano solo grossi sospetti ed incertezza; di certo non eravamo stati riconosciuti e chi poteva parlare non lo fece; infatti ci tolsero dal salone transito e fummo chiusi nella cella che sta proprio di fronte l'entrata del carcere, da qui si vedeva l'intero cortile.
Il 15 o 16 dicembre potemmo osservare quel numeroso gruppo di partigiani che venne portato via e , dopo la guerra, imparammo furono fucilati a Sabbiuno. Era proprio quel gruppo e lo dico con certezza poichè tra loro distinsi bene Tempesta e il Moretto che abitavano a S. Viola e li conoscevo; c'era anche mio cugino il cui corpo fu ritrovato a Sabbiuno.
Li fecero scendere nel cortile e obbligarono tutti a depositare in un angolo i vari fagottini di indumenti e di cibo; legarono ad ognuno le mani dietro la schiena e li cacciarono sui camion che erano imboccati proprio di fronte il portone d'entrata. Fu una scena che mi è rimasta chiaramente stampata nella memoria; anzi per la nostra ingenuità, inesperienza e forse per la rinata speranza di essere ormai riusciti a sopravvivere, non ci spiegavamo perchè dovessero lasciare le cose portate loro dai familiari lì, in quell'angolo, malamente ammucchiate, se dovevano partire.
Il 22 dicembre, alle 10 di sera, alcuni tedeschi vennero nella cella e dicendo che saremmo andati a lavorare al di là del Po; uno cominciò a chiamare dei noimi; ero tra quelli scelti, ma non mio padre che m'era di fianco. Ci preparammo e prendemmo le coperte da consegnare all'Ufficio.
In portineria trovai prigionieri di altre celle e tre miei cugini; rifecero l'appello e chiamarono anche Corazza Gaetano, mio padre, che era rimasto sopra e non lo andarono a cercare perchè avevano fretta e ci spinsero subito sugli autocarri. Ecco perchè lui non partì per Mauthausen ed io sostengo sia stata una grossa fortuna soprattutto per me.
Era ancora notte quando arrivammo nel mantovano e fummo ammassati nella scuola di Pecugnaga, perennemente vigilati da una caterva di S.S. Venuta la sera ci rimisero sui camion e...altro che lavorare, il mattino del 24 dicembre ci scaricarono al campo di Bolzano. Fecero ovviamente l'appello ed assegnarono ad ognuno un numero di matricola: il mio era 7973; dissero che da quel momento in poi non avremmo più avuto un nome e cognome: solo quel numero. Questa era la prima azione psicologica che il tedesco, il nazista, faceva per annullare la personalità e distruggere l'uomo.
continua..