giovedì 19 gennaio 2023

Dialetto bolognese, coniugazione dei verbi: essere, avere


Tempo fa, su facebook, nel gruppo "Amanti del dialetto bolognese" il signor Claudio Balugani, ci fece un bellissimo regalo, pubblicò le coniugazioni dei verbi in bolognese. L'ho trovato talmente utile che me li sono ricopiati e che ora, anche se è passato del tempo, ho deciso di trascriverlo anche qui, per chi è amante, come me, del nostro dialetto, che oggigiorno si va sempre più perdendo, purtroppo.


VERBO ESSERE = éser

Indicativo presente


1° persona singolare io sono= mé a sån
2° persona singolare tu sei = té t î
3° persona singolare lui è= ló l é
3° persona singolare quello è= lu-là l é
3° persona singolare egli è= ló l é
3° persona singolare lei è= lî l é
3° persona singolare quella è= lî-là l é
3° persona singolare essa è= lî l é
1° persona plurale noi siamo= nó a sän
1° persona plurale noi altri= nuéter a sän
1° persona plurale noi altre= nuétri a sän
2° persona plurale voi siete = vó a sî
2° persona plurale voi altri siete = vuèter a sî
2° persona plurale voi altre siete = vuètri a sî
3° persona plurale loro sono (maschile)= låur i én
3° persona plurale loro sono (femminile)= låur äli én


VERBO AVERE= AVAIR

indicativo presente

1° persona singolare   io ho=  mé ai ò
2° persona singolare tu hai  =  té t è
3° persona singolare lui ha=  ló l à
3° persona singolare quello ha=  lu-là l à
3° persona singolare egli ha=  ló l à
3° persona singolare lei ha=  lî l à
3° persona singolare quella ha=  lî-là l à
3° persona singolare essa ha=  lî l à
1° persona plurale      noi abbiamo=         nó avän
1° persona plurale      noi altri abbiamo = nuéter  avän
1° persona plurale      noi altre abbiamo = nuétri avän
2° persona plurale voi avete  =  vó avî
2° persona plurale voi altri avete  =  vuèter avî
2° persona plurale voi altre avete  =   vuètri avî
3° persona plurale loro hanno (maschile)= låur i an
3° persona plurale loro hanno (femminile)= låur äli an




 

martedì 17 gennaio 2023

S.Antonio!


 Finalmente dopo tre anni di Covid, siamo riusciti a celebrare la ricorrenza con i panini, in versione "protetta", ma presenti. E' sempre bello condividere queste tradizioni con chi le conosce e con chi, invece, le impara, anche se, nella nostra zona, purtroppo non ci sono più molti animali a cui donarli. Mi ricordo i grandi festeggiamenti che si facevano tempo fa per questa ricorrenza; ricordo  i miei suoceri, che non uscivano mai di casa, in questa serata, insieme alle altre famiglie della zona, si ritrovavano a cena alla festa della Stadura, dove le varie tavolate si sfidavano tra loro con preparazioni culinarie. Un anno vennero a casa felicissimi per aver vinto con una crescenta di dimensioni di circa 2,5 metri per 1. Era festa grande. E come non ricordare le serate nelle opere parrocchiali con la polentata tutti in allegria, grandi e piccoli insieme. Che nostalgia! Peccato che si siano perse queste usanze.  Fortunatamente possiamo ancora ritrovarci insieme alla messa e apprezzare questi momenti in comunità. Alcuni momenti della celebrazione:



la benedizione dei panini




 




giovedì 5 gennaio 2023

Befana!

 


In questa notte si ritorna tutti bambini...

La “vera” storia della Befana

In un villaggio, non molto distante da Betlemme, viveva una giovane donna che si chiamava Befana. Non era brutta, anzi, era molto bella e aveva parecchi pretendenti.. Però aveva un pessimo caratteraccio. Era sempre pronta a criticare e a parlare male del prossimo. Cosicché non si era mai sposata, o perché non le andava bene l’uomo che di volta in volta le chiedeva di diventare sua moglie, o perché l’innamorato – dopo averla conosciuta meglio – si ritirava immediatamente.                                      

Era, infatti, molto egoista e fin da piccola non aveva mai aiutato nessuno. Era, inoltre, come ossessionata dalla pulizia. Aveva sempre in mano la scopa, e la usava così rapidamente che sembrava ci volasse sopra. La sua solitudine, man mano che passavano gli anni, la rendeva sempre più acida e cattiva, tanto che in paese avevano cominciato a soprannominarla “la strega”. Lei si arrabbiava moltissimo e diceva un sacco di parolacce. Nessuno in paese ricordava di averla mai vista sorridere. Quando non puliva la casa con la sua scopa di paglia, si sedeva e faceva la calza. Ne faceva a centinaia. Non per qualcuno, naturalmente! Le faceva per se stessa, per calmare i nervi e passare un po’ di tempo visto che nessuno del villaggio veniva mai a trovarla, né lei sarebbe mai andata a trovare nessuno. Era troppo orgogliosa per ammettere di avere bisogno di un po’ di amore ed era troppo egoista per donare un po’ del suo amore a qualcuno. E poi non si fidava di nessuno. Così passarono gli anni e la nostra Befana, a forza di essere cattiva, divenne anche brutta e sempre più odiata da tutti. Più lei si sentiva odiata da tutti, più diventava cattiva e brutta.

Aveva da poco compiuto settant’anni, quando una carovana giunse nel paese dove abitava. C’erano tanti cammelli e tante persone, più persone di quante ce ne fossero nell’intero villaggio. Curiosa com’era vide subito che c’erano tre uomini vestiti sontuosamente e, origliando, seppe che erano dei re. Re Magi, li chiamavano. Venivano dal lontano oriente, e si erano accampati nel villaggio per far riposare i cammelli e passare la notte prima di riprendere il viaggio verso Betlemme. Era la sera prima del 6 gennaio. Borbottando e brontolando come al solito sulla stupidità della gente che viaggia in mezzo al deserto e disturba invece di starsene a casa sua, si era messa a fare la calza quando sentì bussare alla porta. Lo stomaco si strinse e un brivido le corse lungo la schiena. Chi poteva essere? Nessuno aveva mai bussato alla sua porta. Più per curiosità che per altro andò ad aprire. Si trovò davanti uno di quei re. Era molto bello e le fece un gran sorriso, mentre diceva: “Buonasera signora, posso entrare?”. Befana rimase come paralizzata, sorpresa da questa imprevedibile situazione e, non sapendo cosa fare, le scapparono alcune parole dalla bocca prima ancora che potesse ragionare: “Prego, si accomodi”. Il re le chiese gentilmente di poter dormire in casa sua per quella notte e Befana non ebbe né la forza né il coraggio di dirgli di no. Quell’uomo era così educato e gentile con lei che si dimenticò per un attimo del suo caratteraccio, e perfino si offrì di fargli qualcosa da mangiare. Il re le parlò del motivo per cui si erano messi in viaggio. Andavano a trovare il bambino che avrebbe salvato il mondo dall’egoismo e dalla morte. Gli portavano in dono oro, incenso e mirra. “Vuol venire anche lei con noi?”. “Io?!” rispose Befana.. “No, no, non posso”. In realtà poteva ma non voleva. Non si era mai allontanata da casa.

Tuttavia era contenta che il re glielo avesse chiesto. “Vuole che portiamo al Salvatore un dono anche da parte sua?”. Questa poi… Lei regalare qualcosa a qualcuno, per di più sconosciuto. Però le sembrò di fare troppo brutta figura a dire ancora di no. E durante la notte mise una delle sue calze, una sola, dove dormiva il re magio, con un biglietto: “per Gesù”. La mattina, all’alba, finse di essere ancora addormentata e aspettò che il re magio uscisse per riprendere il suo viaggio.

Era già troppo in imbarazzo per sostenere un’altra, seppur breve, conversazione.

Passarono trent’anni. Befana ne aveva appena compiuti cento. Era sempre sola, ma non più cattiva. Quella visita inaspettata, la sera prima del sei gennaio, l’aveva profondamente cambiata. Anche la gente del villaggio nel frattempo aveva cominciato a bussare alla sua porta. Dapprima per sapere cosa le avesse detto il re, poi pian piano per aiutarla a fare da mangiare e a pulire casa, visto che lei aveva un tale mal di schiena che quasi non si muoveva più. E a ciascuno che veniva, Befana cominciò a regalare una calza. Erano belle le sue calze, erano fatte bene, erano calde. Befana aveva cominciato anche a sorridere quando ne regalava una, e perciò non era più così brutta, era diventata perfino simpatica.

Nel frattempo dalla Galilea giungevano notizie di un certo Gesù di Nazareth, nato a Betlemme trent’anni prima, che compiva ogni genere di miracoli. Dicevano che era lui il Messia, il Salvatore. Befana capì che si trattava di quel bambino che lei non ebbe il coraggio di andare a trovare.

Ogni notte, al ricordo di quella notte, il suo cuore piangeva di vergogna per il misero dono che aveva fatto portare a Gesù dal re magio: una calza vuota… una calza sola, neanche un paio! Piangeva di rimorso e di pentimento, ma questo pianto la rendeva sempre più amabile e buona.

Poi giunse la notizia che Gesù era stato ucciso e che era risorto dopo tre giorni. Befana aveva allora 103 anni. Pregava e piangeva tutte le notti, chiedendo perdono a Gesù. Desiderava più di ogni altra cosa rimediare in qualche modo al suo egoismo e alla sua cattiveria di un tempo. Desiderava tanto un’altra possibilità ma si rendeva conto che ormai era troppo tardi.

Una notte Gesù risorto le apparve in sogno e le disse: “Coraggio Befana! Io ti perdono. Ti darò vita e salute ancora per molti anni. Il regalo che tu non sei venuta a portarmi quando ero bambino ora lo porterai a tutti i bambini da parte mia. Volerai da ogni capo all’altro della terra sulla tua scopa di paglia e porterai una calza piena di caramelle e di regali ad ogni bambino che a Natale avrà fatto il presepio e che, il sei gennaio, avrà messo i re magi nel presepio. Ma mi raccomando! Che il bambino sia stato anche buono, non egoista… altrimenti gli metterai del carbone dentro la calza sperando che l’anno dopo si comporti da bambino generoso”.

E la Befana fece così e così ancora sta facendo per obbedire a Gesù. Durante tutto l’anno, piena di indicibile gioia, fa le calze per i bambini… ed il sei gennaio gliele porta piene di caramelle e di doni.

È talmente felice che, anche il carbone, quando lo mette, è diventato dolce e buono da mangiare.

 Fiaba di G. Perugini


Felice Epifania!

martedì 24 maggio 2022

Congratulazioni Sua Eminenza Reverendissima!


Oggi Papa Francesco ha nominato il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
"Comunione e missione sono le parole che sento nel cuore. Cercherò di fare del mio meglio, restiamo uniti nella sinodalità". E' quanto ha detto il card. Zuppi secondo quando riporta il Sir.Maria Zuppi a Presidente della CEI è davvero una scelta rivoluzionaria, l’ennesima di Papa Francesco.

Prete di strada - come è rimasto sempre, anche una volta diventato Cardinale - assiduo promotore della Comunità di Sant’Egidio, ha dedicato la sua intera vita ai bambini svantaggiati, ai migranti, ai senza fissa dimora, ai disabili, ai tossicodipendenti, ai carcerati, agli ultimi, agli emarginati.
È stato figura di spicco e mediatore nel processo che, nel 1992, ha portato alla pace in Mozambico, che pose fine a oltre 15 anni di guerra civile.
È stato simbolo della cooperazione in Africa.
Nel 2015, quando divenne arcivescovo di Bologna, scelse di andare a vivere in un dormitorio per preti in pensione, in una umile stanza con un letto, un comò e uno scrittoio uguale a quella di tutti gli altri.
Tre anni fa, nel pieno dell’ipnosi sovranista, se ne uscì con parole manifesto sull’immigrazione e sull’accoglienza:
“L'accoglienza non è un incubo da evitare, è il modo in cui la società cresce, ringiovanisce, matura. Siamo di fronte al rischio di non commuoversi più per la condizione di chi non ha nulla o è in pericolo".
È questa figura qui, questo prete progressista, quest’uomo straordinario, che Bergoglio ha appena scelto per guidare i vescovi italiani. E, a prescindere dalla fede (o meno) di ognuno, è una grande notizia per questo Paese. 


Ho avuto l'onore e il piacere di conoscerlo personalmente non più tardi di una settimana fa, durante la visita Pastorale tenutasi nel nostro paese. Una persona di una intelligenza eccelsa pari alla sua umiltà, disponibile con tutti, ma davvero tutti, riesce a metterti a tuo agio come se fosse una chiacchierata tra vecchi amici. Sono uscita da questa esperienza entusiasta e arricchita come non avrei mai creduto. 
Quattro giorni trascorsi insieme, piacevolissimi, dal mattino presto, sempre in anticipo agli appuntamenti, fino a sera tardi, con una energia inesauribile.
Riporto qualche foto della visita. 

Lodi mattutine a Lovoleto con l'immancabile colazione insieme



Vespri a Quarto, dove si è trasformato in "cameriere "


Rosario in piazza a Cadriano


visita al centro anziani


la biciclettata con i bambini


il saluto domenica





Congratulazioni "Don Matteo", i migliori auguri di buon proseguimento e infinite grazie per quanto fa, ha fatto e sicuramente farà! Pregheremo per Lei.





 

domenica 20 febbraio 2022

Viadagola in festa!

 


Viadagola, per chi non la conosce, è sempre stato un luogo dove sentirsi benvoluti e amati in modo particolare nella comunità parrocchiale. In tempi non di Covid19, e se fosse ancora la realtà di qualche anno fa, ci sarebbe stata una festa sontuosa, con la sfilata lungo i corsi della frazione e ovviamente conclusa nel modo usuale, con ogni bene sulla tavola condiviso con tanta allegria. Ricordo ancora, quando venne ordinato diacono Alfonso, che bella giornata fu, che felicità e  che fierezza si respirava quel pomeriggio. Io mi ero da poco trasferita a Granarolo e partecipai per puro caso, ma questo mi fece innamorare della comunità Viadagolese, nonostante allora non avessi la seppur minima conoscenza di cosa volesse dire fare parte di una comunità. Purtroppo, oggi, vuoi per la pandemia, vuoi perchè comunque tante cose sono cambiate nell'organizzazione ecclesiale, tutto questo non è stato possibile, ma in ogni caso non abbiamo rinunciato a festeggiare il nuovo diacono Francesco .per l'imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione di S.E. Cardinale Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo di Bologna.  Ho avuto anche la fortuna di assistere alla consacrazione a fianco della comunità Francofona, che mi hanno sicuramente contagiato con la loro felicità e la loro fierezza per un connazionale che ha condiviso l'ordinazione con Francesco. Quando ho chiesto se potevo rimanere insieme a loro  o se avessero preferito che cambiassi postazione, ho ricevuto in cambio un sorriso da una sorella che mi ha illuminato la giornata e riempito di gioia. Uno splendido regalo che mi ha arricchito interiormente. 

E' un grande onore e piacere per noi comunità di Viadagola, annoverare un altro diacono che si unisce ad Alfonso e Graziano. La cerimonia si è tenuta come al solito in San Pietro, seppur con alcune variazioni rispetto alle precedenti alle quali avevo assistito. Il diacono non viene vestito da sacerdoti, bensi erano presenti le mogli o persone a loro congiunti, che li hanno accompagnati durante la cerimonia.  Ringraziamo con tanto affetto Francesco per la sua disponibilità e auguriamo  a lui che il Signore lo illumini e gli doni il giusto entusiasmo per percorrere questo cammino.

Grazie Francesco.





lunedì 27 dicembre 2021

Galateo: come si mangiano alcuni frutti


 Galateo come si mangiano alcuni frutti

Le arance – si tengono con la mano sinistra e si sbucciano con il coltello. Gli spicchi si staccano e si portano alla bocca con le dita. Se però l’arancia è molto sugosa e matura, è preferibile, dopo averla sbucciata, affettarla sul piatto e portare alla bocca le fette con la forchetta

Banane – le banane si tengono nella mano sinistra e si sbucciano con il coltello, si appoggia poi il frutto già sbucciato sul piatto e si taglia a fettine col coltello; ogni fettina, infine, viene portata alla bocca con la forchetta

Cachi – i cachi si tagliano a metà , poi si mangiano col cucchiaino, lasciando la buccia nel piatto

Ciliegie – le ciliegie si mangiano staccandole dal gambo una ad una

Fichi – i fichi si dividono in quattro e si sbucciano col coltello, la polpa viene portata alla bocca con la forchetta.

Fragole – le fragole se sono molto grosse si mangiano con due dita, se piccole con il cucchiaino da dolce.

Frutta secca – quanto alla frutta secca si rompe il guscio con l’apposito strumento, si libera il seme dai frammenti e lo si porta alla bocca con le dita

Mandarini – i mandarini si sbucciano con il coltello, poi si mangiano spicchio a spicchio con le mani

Mele e pere – le mele e le pere si tagliano e si sbucciano in questo modo: con la forchetta si tengono ferme nel piatto e col coltello si tagliano a metà, poi in quarti: si dividono i quarti in pezzetti che vengono sbucciati e poi portati alla bocca con la forchetta

Pesche – le pesche si tengono ferme nel piatto con la forchetta e si sbucciano interamente con il coltello, poi si tagliano a pezzetti che vengono portati alla bocca con la forchetta

Pompelmo – il pompelmo viene generalmente servito già tagliato a metà, adagiato in coppe emisferiche e con gli spicchi precedentemente divisi da un apposito coltellino. Si mangia col cucchiaino

Prugne e albicocche – le prugne e le albicocche non si sbucciano. Si dividono a metà facendo una leggera pressione con le dita ai lati del frutto e , dopo aver tolto il nocciolo, si portano alla bocca con la mano destra. Si possono anche tagliare a piccoli pezzi con la forchetta e il coltello

Uva – l’uva si mangia tenendo il grappolo nella mano sinistra e staccando gli acini a uno a uno con la destra. Le bucce e i semi si raccolgono nella mano e poi si depositano nel piatto

Ultimo consiglio – la frutta generalmente viene portata in tavola intera e già lavata. Fanno eccezione l’ananas, i meloni e le angurie che vengono presentati già tagliati a fette. Nel caso in cui la frutta venga presentata non lavata insieme a una bacinella d’acqua, ci si regola così: si sceglie il frutto, lo si prende con il cucchiaio lo si mette nella bacinella, lo si sciacqua discretamente senza toccarlo con le dita e si porta, sempre con il cucchiaio, nel proprio piatto. In nessun caso bisogna asciugare il frutto con il tovagliolo.



venerdì 17 dicembre 2021

Il linguaggio dei fiori

 Da "il calendario di una volta Bologna"


Garofano

Se è rosso indica amore passionale, bianco è fedeltà, giallo è sdegno. Prevalentemente coltivato sulle coste tirreniche, la superstizione non lo vuole nel camerino di una attrice. Numerosi sono i significati attribuiti a questo fiore nel corso dei secoli. La mitologia lega il garofano alla Dea della caccia, Diana. La tradizione cristiana riporta che dalle lacrime di Maria addolorata ai piedi della croce del Cristo nacquero dei garofani. Numerosi sono anche i poteri attribuiti agli infusi ricavati con l'essenza del fiore; toccasana contro i malanni e la febbre, sollievo per le sofferenze d'amore.

Peonia


A questo fiore si attribuisce il significato di onta, vergogna. Ha fiori grandi rossi o rosa, in varie gradazioni sino al bianco, simili alla rosa. Molto diffusa in Europa anche allo stato selvatico, le vengono attribuite fin dall'antichità mille virtù; oltre ad essere utilizzata come antidolorifico, si diceva che un rametto legato al collo dei pazzi potesse curare dalla pazzia. Plinio il vecchio ce ne parla come della pianta del dio Peone, medico degli dei a cui dovrebbe il nome. Per le popolazioni asiatiche, in Cina e in Giappone, la peonia era il fiore degli imperatori, i soli che potevano coltivarlo e coglierlo.

Bucaneve



I bucaneve sono il simbolo della vita e della speranza. E' detto "stella del mattino" perchè è uno dei primi fiori a spuntare dalla terra dopo l'inverno. La tradizione cristiana associa il bucaneve alla candelora, il 2 febbraio, giorno della purificazione della Madonna. Inoltre una leggenda racconta che Eva e Adamo, una volta cacciati dal Paradiso Terrestre, furono trasportati in un luogo gelido, buio e dove era sempre inverno. Eva ben presto fu presa dallo sconforto e dal rimpianto, non accettava l'idea di vivere in quelle condizioni; un angelo avuta compassione di lei, si dice, che prese un pugno di fiocchi di neve, vi soffiò sopra e ordinò che si trasformassero in boccioli una volta toccato il suolo. Eva, alla vista dei bucaneve, prese forza e si rianimò.

Giglio



Il significato del giglio è quello della purezza e della castità. Il giglio è originario della penisola Balcanica e dell'Asia Minore, da dove fu importato nel resto dell'Europa. La tradizione vuole che il giglio, in origine, fosse un fiore bianco e candido, proprio per questo per i cristiani il giglio è simbolo della purezza. Proprio per questo spesso San Giuseppe viene rappresentato con un bastone dal quale germogliano gigli bianchi. Un giglio stilizzato è ancor oggi considerato lo stemma della città di Firenze, anche se, probabilmente, il fiore che si voleva rappresentare era l'iris. La mitologia narra che il giglio nacque da una goccia di latte caduta dal seno di Giunone mentre allattava il piccole Ercole.

Glicine



Indica amicizia disinteressata. Rampicante produce infiorescenze di colore azzurro-violaceo. Dal greco glykys (dolce), per il sapore dolciastro dei fiori, è originario della Cina e della Mongolia. Per i cinesi ed i giapponesi il glicine rappresenta l'amicizia, tenera e reciproca. Il glicine cresce nella costa orientale degli Stati Uniti, da dove fu importato in Europa nel 1700.

Iris



Il significato associato a questo fiore è ,messaggio di buona novella. La mitologia greca ha chiamato Iride, la messaggera degli Dei, e cioè la divinità che, servendosi dell'arcobaleno come passaggio, consentiva il "dialogo" tra Olimpo e Terra. Il fiore dell'Iris fu così chiamato perchè la molteplicità dei suoi colori ricordava, per l'appunto, i colori dell'arcobaleno. In Italia l'iris è un fiore molto comune nelle campagne toscane; sembra infatti che proprio sulla base di questo fiore venne ideato lo stemma della città di Firenze, anche se da sempre esso è comunemente conosciuto come giglio fiorentino. Anche il Re Luigi di Francia lo scelse come simbolo del proprio paese.

Mughetto


Simboleggia verginità, innocenza. Ha piccoli fiori bianchi raccolti a grappolo, dal profumo molto intenso. Dal fiore si ricava un'essenza per l'industria dei profumi. "In antico si vantavano molto le virtù medicinali dei mughetti, ma oggi è decaduto il loro prestigio. Si adopera soltanto la polvere ottenuta dalle radici disseccate e dai fiori, come starnutatorio nelle gravi emicranie e nelle flussioni corniche degli occhi. L'acqua d'oro che godeva una volta tanta reputazione presso i tedeschi, e che credevano perfino atta a rianimare le forze vitali, era preparata con i fiori di mughetto.

Margherita


A questo fiore si associano candore, innocenza, incertezza, grazia, bontà. Fiori bianchi. "Alla margherita sono stati attribuiti emblemi che non hanno alcuna relazione tra loro, forse per la diversità dell'origine che hanno avuta. Mentre una margherita simboleggia il candore e l'innocenza, esprime anche il motto "ci penserò": e perchè? La spiegazione si trova negli officiali e sdolcinati usi di amore del medio evo. Allora non era raro il caso che più cavalieri  reclamassero i colori di una dama, offrendole in cambio, il braccio, il cuore, la mente, e che la dama si trovasse assai imbarazzata nella scelta. In un caso simile essa, invece di dare una risposta decisiva, e per guadagnare tempo, cingevasi la fronte con una corona di margherite e presentavasi adornata ai supplichevoli cavalieri, quasi dicendo loro: ci penserò!"

Rosa canina


Il significato attribuito al fiore è duplice: delicatezza e piacere ma nello stesso tempo anche sofferenza e dolore fisico e questo perchè sin dall'antichità è stata considerata un fiore dalla doppia valenza; da un lato, infatti, la Rosa Canina si caratterizza per la bellezza e la soavità del profumo dei propri boccioli, dall'altro per il tronco ed i rami pieni di spine, piccole e appuntite, che rappresentano un ostacolo per chiunque si avvicini e desideri cogliere una rosa. La Rosa Canina è una varietà di rosa selvatica, che può crescere spontaneamente nei boschi e nei dirupi. Di questo fiore sono note le proprietà calmanti e rilassanti associate agli infusi ed estratti ricavati con i petali del fiore.

Girasole


Fatuità, vanità, falsa ricchezza, amore infelice. Ha le foglie a forma di cuore e da grosse infiorescenze di colore giallo dai cui semi si estrae un olio commestibile. Detta anche elianto e eliotropio. E' un fiore che ha origine antiche: nell'America settentrionale sono stati trovati resti di questo fiore che risalgono a tremila anni prima di Cristo. Gli Indiani d'America lo consideravano una pianta sacra in quanto consentiva all'uomo di farne molteplici usi. In Perù è l'emblema del Dio Sole.

Primula


Questo fiore assume il significato di amicizia, fiducia, speranza. Ha fiori gialli, rosa o violacei solitari o riuniti in ombrelli, con foglie basali disposte a rosetta. La primula è uno dei primi fiori che sboccia appena il clima inizia ad intiepidirsi, anche nei paesi più freddi; proprio per questo essa è da sempre considerata il simbolo della primavera e della speranza di rinnovamento. Rilevanti sono inoltre anche le sue proprietà medicinali: infusi a base dei suoi petali e rizomi essiccati sono un efficace rimedio contro emicranie ed infiammazioni delle vie respiratorie.

Giacinto


I significati attribuiti al fiore sono diversi e variano a seconda della colorazione; per esempio il giacinto rosso è simbolo di dolore, quello blu di coerenza. In generale, comunque, il giacinto rappresenta il gioco e il divertimento. L'etimologia del termine (la radice giak in greco significa rosso cupo) avvalora l'ipotesi secondo la quale in origine il Giacinto era, probabilmente, di colore rosso. Questo fiore è stato caro a molti poeti antichi, tra i quali Plinio, Virgilio e Teocrito, che spesso hanno citato il fiore nei propri versi. In Italia il bulbo del giacinto giunse per la prima volta alla fine del 1500 dall'Asia Occidentale. Preziosa è la sua essenza, con la quale, da sempre, si ricava un profumo delizioso e molto ricercato.







mercoledì 25 agosto 2021

Filati antichi


Filato di ginestra

- raccolta: si effettua da giugno a settembre, secondo l'altitudine e la posizione cardinale, in concomitanza la piena maturità delle vermena, che coincide con la sfioritura. Per il taglio si usano ancora antiche roncole, falci e forbici da potatore

- bollitura:  si fa in grossi pentoloni con acqua e cenere, possibilmente di legno duro (quercia, castagno, acero) per circa un'ora allo scopo di ammorbidire la parte legnosa delle vermene ed iniziare il processo di separazione della fibra dal canapuolo

- macero: dopo la bollitura i mazzetti vengono disfatti, composti in grossi fasci e messi in ammollo in una fossa ricavata nel letto di una fiumara. In tal modo l'acqua, non solo copre compleamente la vermene, ma, nella sua corsa, attraversandole li lavora sempre di piu' per consentire lo scortecciamento della parte legnosa

- scorticatura: consiste nel distendere gli steli su di una superficie dura spazzolandoli energicamente con una spatola di saggina mantenuta bagnata in modo da togliere la pellicola esterna e da separare la fibra interna dall'anima

- cardatura: la fibra lavata e asciugata si presenta aggrovigliata e ancora mista a scorie legnose e cuticolari. Con la cardatura che può essere fatta a mano o con appositi pettini, si puliscono, parellelizzano e selezionano le fibre per la filitura

- filitura:  per trasformare la fibra in filato ci si avvale della canocchia, che serve a contenere la fibra e del fuso che, con movimento rotatorio, attorciglia le fibre su se stesse filandole all'infinito. Tale procedimento, però, è alquanto difficile, tanto per l'elementarietà degli attrezzi quanto per il sincronismo dei movimenti manuali, specie se non si ha una buona esperienza e si desidera ottenere filati sottili. Si può ovviamente, filare la ginestra con il filarello, dove il movimento rotatorio del fuso è generato  da una pedaliera e l'alimentazione della fibra avviene manualmente. Tale attrezzo, che rimane sempre di carattere artigianale manuale,  aiuta a velocizzare la lavorazione e a rendere piu' regolare il diametro del filato

- tessitura: il filato di ginestra, ottenuto con il procedimento descritto e senza alcuna nobilitazione, si presenta alquanto rigido e irregolare di diametro, la superficie pelosa, la mano aspra, secca e ruvida. Grazie però a queste peculiarità la ginestra conferisce ai tessuti particolari qualità che ben  si adattano all'uso a cui sono destinati (tendaggi, guanto per doccia e esfoliazione dell'epidermide, tappeti, borse...) La tessitura della ginestra, da utilizzare preferibilmente in trama, si può effettuare indifferentemente sia su telai manuali che meccanici, ai ferri, all'uncinetto.



TESSUTO D'ORTICA

L'ortica è comunemente considerata un'erbaccia. Ottima e utile in cucina, l'ortica può risultare una rivelazione anche per quanto riguarda i tessuti. Inoltre una tela fatta di fibre d'ortica risulta pure curativa per il nostro organismo. Esercitandosi si possono ottenere tessuti leggeri e pesanti, freschi per l'estate o caldi come un maglione d'inverno.Anche per l'ortica la lavorazione è molto complicata, come per la canapa  o il lino. Il periodo è l'autunno, va raccolta, essicata e poi lasciata a bagno per un lungo periodo, di nuovo essicata in modo da ricevere, finalmente, "la fibra da libro" (parte legnosa della pianta)dalla quale deriva la fibra da filatura. L'ortica per essere ben essicata deve essere riposta sul forno o sul calorifero. Successivamente bisogna eliminare le foglie secche e i rametti. Per testare la qualità della fibra di libro che abbiamo ottenuto, questa va ammorbidita con le dita e rotta leggermente in qualche punto. Una fibra pronta si romperà tra le nostre dita con un lieve scrocchio e, di conseguenza, se tutto è stato fatto correttamente, le fibre si separeranno da sole dal gambo.


Gramolazione: per eliminare dai gambi maciullati la parte legnosa, frammentata in tanti piccoli pezzetti, vengono lavorati in una speciale gramola (un arnese usato per stigliare la canapa o il lino, cioè per separare dalla parte legnosa le fibre, che poi vengono ulteriormente lavorate e infine tessute). Il modello piu' semplice di gramola ricorda una "lama di legno". Le gramole vengono spesso costruite utilizzando un legno molto duro (quercia per esempio). Il procedimento consiste nello sbattere la leva ripetutamente, praticamente finchè tutti i pezzetti di legno non vengono rimossi.


Pettinatura: piu' lunghe sono le fibre e piu' sottile e lungo sarà il nostro filato. Per separare le fibre lunghe da quelle medie e corte si usa un pettine grande, di legno, fissato su un supporto. Tuttavia le fibre piu' lunghe e pulite si possono ottenere pettinando ripetutamente con un pettinino ed una spazzola, che può essere fatta di crini di cavallo. Questo processo richiede una gran pazienza: bisogna letteralmente pettinare e lisciare ogni ciocca di fibre. Prima di iniziare bisogna predisporre attentamente una ciocca di fianco all'altra. La pettinatura parte dalla parte libera e procede gradualmente in direzione del morsetto. Durante questo processo rimangono delle piccole fibre sul pettine. Fibre di media misura vengono spazzate via con la spazzola.

Produzione del filato

Dopo il lavoro da certosino della pettinatura, possiamo finalmente cominciare a realizzare il nostro filato vero e proprio. Abbiamo bisogno di forbici, coltello, spazzola, pettine e folatoio. La spazzola migliore è quella per cani, mentre il filatoio consigliato è a pedale (in questo modo le mani sono sempre libere). Le fuoriuscite di filato saranno copiose. Quindi raccogliete prontamente il materiale ottenuto, altrimenti il lavoro che avete fatto per piu' di una settimana va in malora in dieci minuti.


Canapa

La canapa è una pianta annuale. Si seminava in primavera tra febbraio e marzo, a seconda che la stagione fosse piu' o meno fredda e piovosa. Comunque sempre dopo aver piantato le patate. I buoi viaggiavano avanti e indietro lungo le capezzagne e, con un sistema di carrucole, trainavano la macchina seminatrice lungo il campo (il canver), così che il terreno non venisse calpestato dalle bestie.
Appena spuntavano le piantine, si dovevano tenere a bada i passeri, che ne avrebbero fatto man bassa; per tenerli lontani si girava intorno ai campi, dentro le scoline, battendo la falce con un oggetto di ferro per fare rumore; si mettevano spaventapasseri caricati con potassio e zolfo e  si faceva "schioccare la frusta". Altro pericolo per la crescita delle piantine erano i forti acquazzoni primaverili. Le piantine venivano sommerse e le foglioline rimanevano appiccicate al terreno; allora bisognava liberarle utilizzando una scopetta di saggina. 
La cura della canapa, questo era il termine che si usava, durava tre o quattro giorni, fino a quando le radici si irrobustivano e le piante non rischiavano piu' di essere estirpate.
La canapa cresceva naturalmente, non veniva annaffiata e arrivava a maturazione in agosto.
A questo punto iniziava la fatica.
Prima degli anni 30 si tagliava a mano con il falcetto (traien).Poi si  cominciò ad utilizzare la falciatrice (sgadoura) usata anche per l'erba medica, trainata dai buoi o da un cavallo, cui venne poi applicato un attrezzo che mentre tagliava provvedeva anche a fare le fascine (al brazè).
Venivano disposte incrociate a filari sul campo stesso e lasciate asciugare per 8 10 giorni, secondo la stagione, finchè le foglie si staccavano. Ogni fascina in seguito veniva raccolta e battuta a terra per staccare le foglie secche e nuovamente adagiata sul campo. Si utilizzavano le ore piu' calde della giornata, perchè le foglie si staccassero meglio dal fusto. Il sole e la polvere rendevano questo lavoro ancor piu' faticoso. Le fascine venivano poi raccolte e sistemate in piedi con le teste appoggiate le une alle altre tipo tenda indiana (la prèla),perchè non si bagnassero troppo se pioveva. Le teste, poi, si legavano per evitare che gli steli si disperdessero con il vento. Se c'era pericolo di pioggia, la prèla veniva fatta anche di notte. Quando la canapa era completamente secca, veniva sistemato su un cavalletto di legno, facendo attenzione che il fondo gli steli stesse pari (fer la banchè). A questo punto si sfilavano gli steli prendendoli dalla testa, cominciando dai piu' lunghi, per formare dei mazzetti (manèl) tutti della stessa lunghezza, che poi venivano legati da entrambi i lati. Con dodici mannelli, sei in un senso, sei nell'altro, si formava un fascio. Si tagliavano le cime da entrambi i lati e si legava ben stretto.In questo modo, i primi fasci che si formavano erano lunghi anche tre metri, mentre gli ultimi erano molto piu' corti. La canapa era pronta per il macero. Le fascine venivano portate al macero per essere affondate, con un carro trainato da buoi o cavalli. Era un lavoro che richiedeva piu' o meno tempo a seconda degli uomini che c'erano a disposizione. Non tutti i poderi avevano un macero adatto alla lavorazione della canapa.
La gramolatura  Dopo che la canapa si era bene asciugata, in modo che una parte della  buccia iniziava a distaccarsi dallo stelo e diventava ruvida, si passava alla gramolatura.
La gramadoura era una macchinetta di legno alta 70/80cm e lunga 1 mt, con 4 piedi e una leva a bietta che si incastrava tra due tavole. Mentre un uomo alzava e abbassava la leva, un altro poneva mazzetti di piante sulla grama che ne tranciava lo stelo in pezzetti da 10/12 cm, favorendo il completo distacco della buccia.
La pettinatura. La canapa per essere tessuta doveva prima essere filata.Chi la rendeva idonea alla  filatura era il gargiolaio (al garzuler o cunzarein) che facendola passare piu' volte attraverso diversi attrezzi a forma di pettine o spazzola, la rendeva morbida e sottile. Durante questa operazione la canapa da filare veniva suddivisa a seconda della morbidezza in tre categorie: al ramdel, al manel, i tuz (prima, seconda, terza scelta). Mentre preparava "le trecce"  di ramdel, si ungeva le mani con un particolare grasso di maiale, la sonza che rendeva la canapa piu' lucida e pastosa. Per la preparazione delle  corde la canapa non andava filata, ma veniva ritorta direttamente con l'aiuto di un apposito attrezzo.

La filatura. Era l'attività che occupava le donne nelle giornate invernali con metodi antichissimi come il fuso e la rocca. La fibra di canapa, per essere filata, doveva essere avvolta sulla rocca o conocchia. La filatrice aiutandosi con il fuso o con il filatoio a pedale, ritorce le fibre "munte" dalla rocca e forma il filo che viene avvolto sul fuso. I tuz rappresentavano la stoppa ed erano così duri che per filarli non si riusciva ad avvolgerli sulla rocca, ma si infilavano in cima ad un bastone e poi...con santa pazienza... Con questo filato grosso e duro si faceva la tela per indumenti da lavoro nei campi, ma poteva anche diventare un lenzuolo durissimo che grattava. Finito di filare la terza scelta, si passava alla seconda e alla prima il ramdel che era poi l'unica che poteva essere avvolta sulla rocca.


lunedì 25 gennaio 2021

Calende! non converte però...


Oggi San Paolo, il tempo non converte (non è completamente sereno) però io le ho fatte e ve le trascrivo. Solitamente non ci prenderà alla perfezione ma sono da guida :-).

Le previsioni per questo anno sono (prima e seconda quindicina):

Gennaio             brutto                brutto

Febbraio            brutto                brutto

Marzo                bello                 brutto

Aprile                brutto                brutto

Maggio              brutto               variabile

Giugno              bello                 umido

Luglio               bello                 bello

Agosto              bello                 brutto

Settembre         brutto                bello

Ottobre             brutto                variabile

Novembre        variabile            bello

Dicembre         bello                  bello

sabato 28 marzo 2020

Omelia del Papa 27.03.2020

MOMENTO STRAORDINARIO DI PREGHIERA IN TEMPO DI EPIDEMIA PRESIEDUTO DAL SANTO PADRE FRANCESCO

Sagrato della Basilica di San Pietro Venerdì, 27 marzo 2020

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).

Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.

Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.

Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).


Benedizione Urbi et Orbi e Indulgenza plenaria

27.3.2020 ore 18
Da Vatican News
Immagini, segni e parole della preghiera per il mondo che Francesco ha voluto celebrare per implorare la fine della pandemia
Il Protagonista della preghiera che la sera del 27 marzo - anticipo del Venerdì Santo - Papa Francesco ha celebrato in una Piazza San Pietro vuota e sprofondata in un silenzio irreale, è stato Lui. Il Crocifisso, con la pioggia battente che gli irrigava il corpo, così da aggiungere al sangue dipinto sul legno quell’acqua che il Vangelo ci racconta essere sgorgata dalla ferita inferta dalla lancia.
Quel Cristo Crocifisso sopravvissuto all’incendio, che i romani portavano in processione contro la peste; quel Cristo Crocifisso che san Giovanni Paolo II ha abbracciato durante la liturgia penitenziale del Giubileo del 2000, è stato protagonista silenzioso e inerme al centro dello spazio vuoto. Persino Maria, Salus populi Romani, incapsulata nella teca di plexiglass divenuta opaca a causa della pioggia, è sembrata cedere il passo, quasi scomparire, umilmente, di fronte a Lui, innalzato sulla croce per la salvezza dell’umanità.
Papa Francesco è apparso piccolo, e ancora più curvo mentre saliva non senza fatica e in solitudine i gradini del sagrato, facendosi interprete dei dolori del mondo per offrirli ai piedi della Croce: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. L’angosciante crisi che stiamo vivendo con la pandemia “smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità” e “ora mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: Svegliati Signore!”.
La sirena di un’ambulanza, una delle tante che in queste ore attraversano i nostri quartieri per soccorrere i nuovi contagiati, ha accompagnato insieme alle campane il momento della benedizione eucaristica Urbi et Orbi, quando il Papa, ancora solo, si è riaffacciato sulla piazza deserta e sferzata dalla pioggia tracciando il segno della croce con l’ostensorio. Ancora, il Protagonista è stato Lui, quel Gesù che immolandosi ha voluto farsi cibo per noi e che anche oggi ci ripete: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?... Voi non abbiate paura”.





Covid19

L'epidemia da coronavirus si chiama Covid-19. L'Oms: "Primo ...

La COVID-19 (acronimo dell'inglese COronaVIrus Disease 19), o malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2 (dall'inglese Severe acute respiratory syndrome coronavirus 2, nome del virus) o più semplicemente malattia da coronavirus 2019, è una malattia infettiva respiratoria causata dal virus denominato SARS-CoV-2 appartenente alla famiglia dei coronavirus. I primi casi sono stati riscontrati durante la pandemia di COVID-19 del 2019-2020.

Una persona infetta può presentare sintomi dopo un periodo di incubazione che può variare tra 2 e 14 giorni circa (o raramente ci sono stati casi di 29 giorni), durante i quali può comunque essere contagiosa. Per limitarne la trasmissione devono essere prese precauzioni, come adottare un'accurata igiene personale, lavarsi frequentemente le mani e indossare mascherine. Coloro che ritengono di essere infetti devono indossare una mascherina chirurgica e chiamare immediatamente un medico al fine di ricevere appropriate indicazioni.
Il coronavirus colpisce principalmente il tratto respiratorio inferiore e provoca una serie di sintomi descritti come simil-influenzali,tra cui febbre, tosse, respiro corto, dolore ai muscoli, stanchezza e disturbi gastrointestinali quali la diarrea; nei casi più gravi può verificarsi una polmonite, una sindrome da distress respiratorio acuto, sepsi e shock settico, fino ad arrivare al decesso del paziente. Non esiste un vaccino o un trattamento specifico per questa malattia. Attualmente il trattamento consiste nell'isolare il paziente e nel gestire i sintomi clinici.
La malattia venne identificata per la prima volta nei primi giorni del 2020 dalle autorità sanitarie della città di Wuhan, capitale della provincia di Hubei in Cina, tra i pazienti che avevano sviluppato una polmonite senza una causa chiara.
Intorno a metà dicembre 2019, le autorità sanitarie della città di Wuhan in Cina (circa 11 milioni di abitanti), riscontrarono i primi casi di pazienti che mostravano i sintomi di una "polmonite di causa sconosciuta"; questo primo gruppo di malati era in qualche modo collegato al locale mercato del pesce, costituito da circa un migliaio di bancarelle su cui si vendevano anche polli, fagiani, pipistrelli, marmotte, serpenti, cervi macchiati e organi di conigli oltre ad altri animali selvatici. Fin da subito venne ipotizzato che si trattasse di un nuovo coronavirus proveniente da una fonte animale (una zoonosi).
Il ceppo responsabile della pandemia è stato identificato nei primi giorni di gennaio 2020 e designato SARS-CoV-2 o "Nuovo Coronavirus di Wuhan", mentre il suo genoma è stato pubblicato il 10 gennaio.
A marzo 2020 il tasso di mortalità e di morbilità dovuti alla malattia non sono ancora ben chiari; mentre nel corso dell'attuale pandemia la mortalità tende a cambiare nel tempo, la percentuale di infezioni che progrediscono verso una malattia diagnosticabile rimane ancora non definita. Tuttavia, la ricerca preliminare sulla COVID-19 ha rilevato un tasso di letalità compreso tra il 9% e il 11% e, nel gennaio 2020, l'OMS ha suggerito che questo valore potesse essere di circa il 3%. Uno studio effettuato su 55 casi fatali ha rilevato che le prime stime sulla letalità potrebbero essere troppo elevate poiché non sono state prese in considerazione le infezioni asintomatiche stimando, dunque, un tasso di letalità (la mortalità tra gli infetti) compreso tra lo 0,8% includendo i portatori asintomatici e il 18% includendo solo i casi sintomatici della provincia di Hubei.
Al 22 marzo 2020, sono stati confermati 301 400 casi, con 91 308 guarigioni e 12 303 morti.

Infezioni sono state segnalate in gran parte del mondo occidentale e in Asia, principalmente in coloro che provenivano dalla Cina continentale, con trasmissione riscontrata anche in Germania, Francia, Italia, Hong Kong, Vietnam, Thailandia, Singapore, Giappone, Corea del Sud, Australia. I decessi sono stati segnalati nella Cina continentale, nelle Filippine, e a Hong Kong. A partire dall'11 febbraio 2020, solo la Cina continentale è elencata come un'area con trasmissione di comunità in corso.[22]

Quarantena ai tempi del coronavirus

Giorno x di quarantena e isolamento.  Arrivano voci dalla Cina che una intera città, Wuhan, è stata colpita da un misterioso nuovo virus molto pericoloso ad alta diffusione. Impressiona vedere queste strade deserte, dei droni che redarguiscono persone che escono di case senza mascherina e intima loro di tornare immediatamente indietro, sembra un film di fantascienza.In Cina poi, dove l'ultra affollamento è di norma...ma è là. Dispiace, ci preoccupa, ma è là.
Ma come canta una famosa canzone di Tozzi, "tanto prima o poi gli altri siamo noi"...e infatti, una mattina del 21 febbraio, ignari ci alziamo , con solo un piccolo timore dato da una coppia cinese in viaggio in Italia che era stata ricoverata allo Spallanzani perchè colpita da Coronavirus, oggi COVID 19, e veniamo gelati da una notizia che non avremmo mai voluto sentire: "Un uomo è stato ricoverato all’ospedale di Codogno, in provincia di Lodi, con una forte insufficienza respiratoria. È risultato positivo al test del coronavirus. Non è stato n Cina, ma avrebbe avuto contatti con un amico rientrato dal Paese". Con il tempo si appurerà che l'amico non era positivo e non si troverà mai il paziente 0. Fatto sta che inizia questo strano, surreale, inimmaginabile periodo di sospensione della vita.
Via via si susseguono casi, Codogno diventa zona rossa, la Lombardia la regione più colpita, ma poi ogni regione viene contagiata.
Gli italiani diventano gli untori del mondo, solo perchè le altre nazioni evitano di fare tamponi ai loro ammalati, e a quelli che vengono fatti e dichiarati contagiati sono passati tutti per Codogno.
A questo punto mi assale una curiosità irrefrenabile e mi domando dove sia esattamente Codogno e perchè io non ci sono mai stata, nemmeno a prendere un caffè nel tristemente famoso bar dove sono passati tutti i viaggiatori colpiti nel mondo.
Per giustizia di cronaca: Codogno è un comune italiano di 15 978 abitanti della provincia di Lodi, in Lombardia. Oltre a essere il centro principale della pianura nota come Basso Lodigiano, è la seconda città più popolata della provincia di Lodi e il principale centro, dopo il capoluogo, per importanza storica, economica e per numero di abitanti.
Da allora è trascorso poco più di un mese e quello che si prevedeva, purtroppo si è verificato.
Ora ci troviamo a dover vivere in casa propria, mantenendo distanze tra un individuo e l'altro superiore al metro e mezzo, lavarci le mani con sapone o detergente più volte possibile al giorno, ritrovandoci con pelle secca e screpolata, perchè pare che questo virus si diffonda toccandosi occhi, naso e bocca, mentre con il sapone, la "pellicola" (non conosco il termine esatto) che ricopre il virus viene staccata impedendogli così di sopravvivere, usciamo con mascherine introvabili FFP2-FFP3 e guanti mono uso.
Le attività considerate non essenziali sono tutte chiuse, rimangono operativi i negozi e i produttori alimentari, le città e i paesi deserti; si può infatti uscire solo con il modulo di autocertificazione

una volta a settimana, una persona per famiglia ed evitare assembramenti, pena multa salata e per i casi più gravi anche una denuncia penale. Chi ha cani può portare fuori solo per un giro intorno al proprio fabbricato, regalando così un paesaggio surreale, un silenzio assordante e unica "compagnia" i programmi televisivi monopolizzati dal coronavirus..
La nostra vita è cambiata, come sarà è impossibile prevederlo, possiamo solo collaborare per aiutare chi sta affrontando questa emergenza in prima linea, con l'unica cosa che sembra essere utile e continuando a pregare...#iorestoacasa