martedì 7 agosto 2018

Pianaccio (Lizzano in Belvedere) - parte 1

Domenica siamo stati invitati da amici a casa loro a Pianaccio. Un bellissimo posto poco conosciuto, tranquillo pittoresco. Il paese natio di Enzo Biagi, 30 residenti, sembra di essere fuori dal mondo, cicale che cantano e il rumore dell'acqua che scorre fanno da cornice ad uno splendido scenario.
La frazione o località di Pianaccio dista 3,31 chilometri dal medesimo comune di Lizzano in Belvedere di cui essa fa parte, e sorge a 755 metri sul livello del mare.
Ho avuto modo di visitare, oltre al bosco, delle realtà a me totalmente sconosciute che mi hanno affascinato. Riporto, per iniziare, quanto trovato in rete (Davanti al camino) per aiutarmi a raccontare questo luogo ameno.





"Quassù non ci si arriva per caso. Anzi, occorre una certa  determinazione  nel percorrere i pochi, tortuosi,  chilometri che separano dal fondovalle. Però, come ogni cosa difficile da raggiungere,  giunti a Pianaccio lo spettacolo è davvero unico. Migliaia  di alberi, castagni, carpini, roverelle e più in alto aceri,  faggi e chissà quali altre essenze, che formano una foresta all’apparenza  impenetrabile dalla quale emergono improvvise le prime case del paese. Come abbiamo fatto a costruirle quassù, nei pochi metri disponibili fra un dirupo e un altro è un mistero. Un gioco di equilibrio fra uomo e natura che qui sono inscindibili: l’una ha forgiato l’altro e ne è stata modificata. Con il bosco ha dovuto fare i conti Pianaccio infatti la storia di tutti i pianaccesi sia in senso positivo, da esso  ricavavano le castagne essenziali per sopravvivere ed il poco lavoro che esisteva in zona, sia negativo perché quell’ambiente così aspro e ostile ne ha condizionato per sempre  la vita ed il carattere. Gente dura, un po’ ribelle, costretta per campare  a trasferirsi per parecchi mesi l’anno nelle pianure in cerca di lavoro. Una separazione forzata che, come reazione, ha generato in loro un senso di fiera appartenenza difficilmente riscontrabile in altre zone come ebbe a rilevare già nel 1851 Luigi Ruggeri nella sua descrizione delle chiese parrocchiali della Diocesi di Bologna:   “… l’amore del luogo  natìo ha posto nel loro petto così profonde radici, che queste balze, queste selve e queste acque cadenti sono ad essi più care che non le splendide città” . 
La prima domanda che ci si pone  arrivando quassù  è perché  i primi abitanti  avessero scelto un luogo cosi difficile per vivere, dove “La natura sembra avere riunito nella gola di Sela quanto essa può crear di più grandioso, di più selvaggio e di più terribile” (Ruggeri, 1851). Purtroppo non ci sono risposte razionali  se non il fatto che proprio questi luoghi oggi così impervi  rappresentavano un tempo un  rifugio per chi doveva in qualche modo proteggersi o nascondersi. Nato probabilmente  verso la metà del Seicento (a questo periodo  risalgono infatti i primi documenti noti), per lungo tempo Pianaccio fece parte del comune di Monte Acuto delle Alpi anche se i suoi abitanti mal digerivano questa situazione, in particolare la dipendenza dalla chiesa di San Niccolò dove erano costretti a recarsi la domenica per assistere alle funzioni religiose. Un aspetto che oggi può fare sorridere  ma che all’epoca  rappresentava un segno di sottomissione difficile da accettare per i fieri pianaccesi. Così nel 1736, grazie all’aiuto di un sacerdote,  don Giovanni Nanni, eressero un piccolo oratorio dedicato ai Santi Giacomo ed Anna e lo dotarono del denaro sufficiente per il mantenimento di un cappellano. Morto don Giovanni  gli abitanti di Monte Acuto chiesero ed ottennero che l’oratorio fosse declassato a “beneficio semplice”,  cioè senza sacerdote, con l’obbligo di sole dodici messe l’anno.  Ne nacque un contenzioso durato  anni   che portò gli abitanti di Pianaccio a ricorrere addirittura al Papa risoltosi grazie all’aiuto di un altro sacerdote, don Marco Biagi, che ottenere di nuovo il diritto alla messa festiva. Non contenti, a scanso di equivoci,  aumentarono la rendita parrocchiale ed ottennero che la chiesa fosse  dichiarata prima sussidiale e poi, nel 1830, “parrocchia libera, indipendente, con fonte battesimale”.  
Dal centro del paese partono numerosi sentieri che consentono di visitare il territorio del Parco regionale del Corno alle Scale mentre, seguendo la strada asfaltata, è possibile raggiunge la località Segavecchia il cui  nome fa pensare all’esistenza di un luogo per la lavorazione del legname. Ma se la presenza quassù di una segheria è facile da immaginare, l’aggettivo vecchia appare invece del tutto ingiustificato. Esiste però un’altra ipotesi: collegare questo  termine ad un antico rito di mezza Quaresima. Era uso infatti in molte zone dell’Appennino e probabilmente anche a Pianaccio, interrompere per un giorno il periodo penitenziale bruciando, a volte anche segando, un fantoccio raffigurante una vecchia decrepita che rappresentava la Quaresima. Una parentesi di spensieratezza d’origine pagana, proprio per questo osteggiata duramente dalla chiesa, da cui l’ipotesi della  possibile derivazione del nome Segavecchia, cioè un luogo distante dal paese, al riparo quindi da qualsiasi controllo, dove anticamente gli abitanti del paese si ritrovavano in gran segreto per rinnovare l’antico rito quaresimale di segare la vecchia.
L’orgoglioso attaccamento che hanno i pianaccesi verso le loro tradizioni li porta ancora oggi ad essere l’unico luogo della zona dove è possibile assistere all’antico  rito della “castgnadura”. Dai primi giorni di ottobre i boschi che circondano il paese cominciano ad animarsi: è il tempo della raccolta delle castagne, le donne (soprattutto)  munite di tracolla (carnero) con le mani abili e velocissime cominciavano la raccolta dei frutti. Un’operazione che si protrae per diversi giorni, mai però oltre i Santi  quando per antica usanza arrivava il tempo dei “ruspadori”,  cioè dei paesani che non  possedevano  castagneti. In fondo il bosco ed i suoi frutti erano un patrimonio di tutti e tutti, anche i più poveri, dovevano avere la possibilità di sfamarsi.  Terminata la raccolta si trasportavano le castagne al “casone”, l’essiccatoio,  un fabbricato di modeste dimensioni  dotato di due sole aperture: una  piccola in alto che serviva per far entrare le castagne ed una al piano terreno per fare fuoco.  Un fuoco lento, ininterrotto per quaranta giorni, che doveva bruciare senza fiamma in modo che al graticcio  arrivasse solo il calore.  Ogni tanto poi bisognava girare le castagne, prima si accatastavano ai quattro lati e si cominciavano a stenderle di nuovo  seguendo con cura l’ordine inverso. Trascorso il lungo periodo di attesa nel corso del quale le castagne venivano sorvegliate con cura quasi ininterrottamente, si passava alla fase della pulizia della buccia, prima dentro un bigoncio battendole con una grossa stanga di legno e poi,  liberate definitivamente dalle ultime impurità, con la “vassora” facendole roteare ritmicamente in aria. L’ultimo passaggio era al mulino che trasformava  la fatica di oltre due mesi di lavoro nella  farina. 

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